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giovedì 24 gennaio 2019

Secondi pensieri - 374

zeulig


Decostruzione – Ha senso come all’origine, nei primi scritti di Derrida, come proposta di traduzione dell’opera demolitoria di Heidegger sulla metafisica, da Heidegger detta Abbau  e Destruktion. Derrida trovava l’equivalente latino troppo negativo e unilaterale. Propose dapprima “sradicamento” e “demolizione antagonistica”. Poi optò per “decostruzione” perché a doppio senso: di disorganizzazioni, scomposizione, e anche di ricomposizione. Il processo di decostruzione è una costruzione: ha utensili limati e allenati, una tecnica, e un progetto.

Derrida – Il filosofo si può dire di seconda mano, “parassitario”. Più precisamente saprofita - un saprofita killer, nutrendosi, se non proprio delle carogne comunque dei cadaveri, che lui stesso ha provveduto a disanimare e sezionare.

Enigmatico – Enigmista? È uno stato o una creazione?

Linguaggio – È, è diventato, chiave-grimaldello di manipolazione della riflessione, compresa l’ontologia. In circolo vizioso, il linguaggio manifestandosi via via sempre meno significante, allusivo, inconclusivo – insignificante, se non come procedura. Fenomenologia, strutturalismo, semiologia – il Seyn di Heidegegr, Derrida “orale” (il teorico della scrittura), l’Umberto Eco sistemico tra i più citati (anche letti? analizzati?). Il professante Wittgenstein se ne teneva a distanza, rispettoso.

Marinismo – Ha un distinto sentore di marinismo, a distanza, la filosofia del Novecento, da Husserl a Heidegger e Derrida. Per nessun motivo specifico ma per il gusto di meravigliare sottilizzando, tra agudezas e distinguo interminabili. A  fini di verità, beninteso, ma senza nessuna verità, se non il diniego – il diniego assoluto facendo valere come prova pratica di scetticismo. La filosofia come opera concettista – o come le “preziose” di un secolo dopo in Francia: una costruzione che tanto più si apprezza quanto più si assottiglia e vaga, che parte o approda sempre a un concettino o agudeza, ornandolo di metafore continuate – nel mentre che le nega - e altre figure retoriche. Appassionante, forse, per un perito filologo, ma a nessun esito. Non di verità, se non che non c’è verità. Un po’ divertente, decostruire è divertente, ma poi non appassionante. 

Narcisismo –Sarà il segno dell’epoca, dei social, e dell’occhio incollato su face book, visto come uno specchio e non una finestra sul mondo. Del narcisismo prima maniera di Freud, della libido che si concentra sull’Io. Di cui però – Freud ha mancato di indagarlo – non si ha o non si dà la consistenza: è un direzione e un vezzo.

Scrittura – Derrida ne celebra l’attrattiva per il suo assunto basico (preliminare) della “indecidibilità”. Dell’indefinitezza, dell’indeterminatezza. In un primo momento. Poi della non appartenenza al soggetto, all’autore, rovesciando di segno il “performativo” del linguista di Oxford John Lanhshaw Austin, dalla “aberrazione” al linguaggio comune. Grazie alla “iterabilità” della scrittura. Alla sua autonomia dal soggetto (autore): come scambio, e come citazione e innesto.

Traduzione – È l’esercizio pratico, comune, della decostruzione. Chi traduce deve in continuazione scomporre e ricomporre, concettualmente, verbalmente, anche solo ricorrendo al dizionario bilingue o al vocabolario.

Tribalismo – A lungo rimosso o negato, per immotivato rispetto dei diritti umani, torna trionfante nel millennio, sotto il nome di identità e comunità, e sul piano politico con i sommovimenti populisti,che vi fanno largo ricorso – Brexit, sovranismo, America First, putinismo.
“Gli europei erano convinti che gli africani appartenessero alle tribù”, può spiegare John Iliffe, lo storico, ancora recentemente, “gli africani costruirono le tribù cui appartenere”. È una spiritosaggine, per figurare nell’antologia 1983 di Hobsbawm e Ranger, “L’invenzione della tradizione”, di un decostruzionismo un po’ abusivo: riusciva a spogliare i già poveri africani anche della tradizione – vero è solo che il colonialismo si assestò sugli assetti tribali come cinghia di trasmissione per i propri assetti di potere: capi e capetti, e cerimoniali e codici etnici e localistici, talvolta di comodo o morti. Ma il tribalismo non è mai morto nella civiltà, colonialismo e imperialismo compresi.  
C’è stato a lungo nel nazionalismo. E prima nella religione – dove c’è tuttora, nell’islam. Per il Dio unico della Bibbia, l’unico “Dio degli eserciti” fra i tanti “buoni”, nota Simone Weil sconsolata - la filosofa, si noti, delle radici. Ma è anche il misticismo senza Dio, in musica, filosofia, teologia, cose nobili ma senza Redenzione.
L’identità torna nella vertigine di particolarismo, noi e gli altri - il resto del mondo cioè – quale specialità o eccezionalità di stirpe e destino. Non monolitico, il tribalismo esige sottostirpi e sotto destini, quali si teorizzano ancora nel millennio.

È anche stimolo alla diversità, bene risorgente. “Uno zulu non amerebbe essere un anglobritannico, e neanche un afrikaner”. Lo sosteneva il “dottor Malan”, Daniel François Malan, il primo ministro del Sudafrica dal 1948 al 1954 che instaurò l’apartehid, e quindi è sospetto. Ma è un fatto. La tribù è un fatto e una logica: è via di mezzo tra l’etnocentrismo, o assimilazione, e il relativismo culturale. Si lega alla terra e al sangue, ma più alla storia, e smantella il conflitto quale si configura oggi, tra Nord e Sud, compreso il razzismo antirazzista. Non è un confine, che possa per esempio destinare l’Africa all’indigenza e alla violenza, e può essere un collante.
Si vede meglio in America, negli Stati Uniti. L’America segue uno speciale percorso, forte di amor patrio oltre che di leggi, essendo nazione fra i ghetti, per i neri pure e i pellerossa, e ora per i latinos. I dannati dell’Europa e dell’Asia l’hanno formata, e gli schiavi dell’Africa, e ne ha soverchiato gli odi nella lotta per la sopravvivenza – per molto meno le tribù europee, non così povere e perfino colte, si sono fatte la guerra per quindici secoli. C’è un Nord ancora feroce, per essere il Sud dago, latino cioè, cattolico e bruno, o protestante rosso di pelo e povero. E nero o ebreo. Ma è un Nord fatto di gente spesso del Sud. I bianchi poveri odiano i neri come odiano lo yankee di città, e gli ebrei. Tutto resta etnico nel centro della modernità, abbigliamento, capelli. danze. Ma dalle gerarchie passa alla diversità.

Yo-yo di Eraclito – Rivive in una lettera dello scrittore Paul Auster, che ripubblicandola in “Diario dell’interno”, lo fa seguire da questa nota: “Riferimento a uno dei più noti frammenti di Eraclito: «L’ascesa e la discesa una e stessa cosa»”.

zeulig@antiit.eu

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