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sabato 9 febbraio 2019

Letture - 373

letterautore


Colonialismo – C’era, nell’Africa coloniale francese, il “caffè bianco” e il “caffè nero”. “Un chilo di caffè «bianco» valeva” in colonia “più di un chilo di caffè «nero»”. Lo spiega Mitterrand a Marguerite Duras (“Le bureau de poste de la rue Dupin et autres entretiens”). Era nero il caffè, lo stesso caffè “bianco”, venduto da un produttore nero. E i piccoli produttori africani non potevano mettersi in cooperativa: “Le cooperative africane erano proibite e i loro dirigenti mandati in prigione. Houphouët-Boigny, minacciato, è passato alla clandestinità solamente perché reclamava l’uguaglianza economica” – che era già deputato all’Assemblea Nazionale francese.  

“Che gli si manifestasse disprezzo”, riflette l’algerino ufficiale francese ad Aleppo del racconto “Addii” (“La gabbia dei falconi. Tredici racconti orientali”) di Annemarie Schwarzenbach alle prime prove, giovane “di bellezza provocante, i più begli occhi di Aleppo”, che gli altri ufficiali trattano come “l’africano”, “gli sembrava incomprensibile: questo serviva alla grandezza della Francia?”

Dante – La sua ricezione nel mondo islamico, recente, è stata laboriosa. Ed è scarsa, anche tra gli arabi cristiani: Elsheikh, l’accademico della Crusca egiziano, ne fa un censimento impietoso nel saggio di quattro anni fa nei “Quaderni di filologia romanza”, in cui analizza il Canto XXVIII della “Commedia”, in chiave storica, contestualizzandolo. Sia le sinossi che le traduzioni evitano i versi 22-64 del canto, le immagini violente e la didascalia blasfema di Maometto e Alì’. Un primo cenno di Dante in arabo Elsheikh trova solo nel 1930, “una sobria e puntuale analisi delle opere minori e un garbato riassunto delle tre cantiche”, opera al Cairo di Taha Fawzi. La prima traduzione è quasi contemporanea, in prosa, appare nel 1930-1933, ed è opera di Abbud Abu Rašid, libanese naturalizzato italiano. La traduzione Elsheikh dice “resa quasi illeggibile dalle molte chiose sovrapposte e intricate”, senza menzione né di Maometto né di Alì. La traduzione successiva, anch’essa in prosa, del solo “Inferno”, a opera del giordano cristiano Amin Abu Sha’ar, pubblicata a  a Gerusalemme nel 1938, basata sulla versione inglese di Henry Francis Cary, salta tutto intero il canto XXVIII, ma anche i due successivi.
Nel dopoguerra va meglio. Tra il 1955 e il 1969 l’egiziano Hassan Uthman porta a termine la prima traduzione, “pregevole”, un lavoro di quarant’anni, condotta sull’originale e corredata da ottime note. Sempre tagliando i versi 22-64, ma dandone anche il motivo: sono versi “inadatti alla traduzione” e frutto di “un grossolano errore”, scusabile in “quanto in quell’epoca era opinione comune sul grande Profeta”. Il giudizio è invece negativo di Elsheikh sulla traduzione successiva, 2002, opera dell’iracheno Kazim Jihad, che l’ha realizzata con il contributo dell’Unesco. Jihad si limita a sostituire i nomi di Maometto e Alì con puntini di sospensione tra parentesi, ma la sua traduzione è “assolutamente incomprensibile”. Nel 2002 esce anche una traduzione a Damasco, del siriano Hanna Abbud, che anche evita i nomi e ci mette i puntini di sospensione, ma, a giudizio di Elsheikh, esagerando: “Cerca di camuffare l’identità dei personaggi fino a rendere incomprensibile il passo dantesco”.

Non c’è molto islam nella “Divina Commedia”, fuori del canto incriminato dell’“Inferno”. C’è la scienza, con Avicenna e Averroé tra gli “”spiriti magni” del limbo – con Saladino, che ancora non è quello “feroce” delle figurine. E i nomi di Albumasar, Alfragano, Algazel, Alpetragio.

La filologa Roberta Morosini, che professa all’università americana di Wake Forest, lo fa islamofobo più che islamista, come è giusto. Anche fuori del canto XXVIII dell’ “Inferno”. La “leggenda del Toro” rileggendo come un’allegoria anti-islamica - “Dante, il Profeta e il Libro: la leggenda del Toro dalla Commedia a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio” (L’Erma di Breitschneider). Ma con una distinzione, che aveva già posto e qui riprende. Interrogandosi sul perché l’islam, che Tommaso d’Aquino presenta nella “Summa contra gentiles” come un’eresia cristiana, sia da Dante considerato invece uno scisma, poiché mette Maometto all’“Inferno” tra i seminatori di divisioni. Una differenza che non sembra grande, ma non per Dante, che sulle questioni teologiche è preciso. Oggi è tema del colloquio, anche se improduttivo, tra le fedi.

Madre-Padre – La madre non c’era nei miti, e non c’è stata nella favolistica. Non ce l’ha Biancaneve, se non matrigna, nella Biancaneve dei fratelli Grimm, come Cenerentola e altre - il femminile c’è ma in altra forma, la fata, la silfide. Fino a Pinocchio e Bambi. Anche Heidi, della serie infinita, è orfana. Ora non c’è più il padre. I due non vanno mai assieme?

Ofelia – La parte più difficile secondo Oscar Wilde (“Amleto al Lyceum”, in “Autobiografia di un dandy”), “causa di situazioni di cui non è l’elemento centrale e di cui non ha il controllo”: “Se le parole «facile» e «difficile» hanno un senso nell’ambito dell’arte, direi quasi che Ofelia è la parte più difficile. Ofelia ha meno materiale con cui ottenere un effetto. È l’occasione della tragedia, ma non ne è l’eroina né la vittima principale”.

Oxford – La città dei suoi studi e del suo riconoscimento Oscar Wilde vuole “madre della bellezza e della luce” e “la cosa più bella che vi sia in Inghilterra – in nessun altro luogo la vita e l’arte sono così perfettamente unite”. Sulle rive dell’Isis come su quelle dell’Ilisso, Oxford come ad Atene (“Enrico IV a Oxford”, in “Autobiografia di un dandy”).

Poe – Oscar Wilde lo vuole miglior poeta. Nei “versi meravigliosi di «To Helen», poesia bella quanto un cammeo greco e musicale come la cetra di Apollo”, e non solo (“Grandi scrittori narrati da piccoli uomini”, in “Autobiografia di un dandy”).

Poeta – “Un poeta è, fra tutte le creature di Dio, la meno poetica”, John Keats.

Proust – Fu ben il traduttore di John Ruskin, lo “scopritore” dei pittori “primitivi” italiani, l’ispiratore dei Pre-raffaelliti, dell’estetismo tardo-romantico.

Rennell Rodd – Poeta ammiratissimo al debutto, “Rose Leaf and Apple Leaf”, da Oscar Wilde, che ne scrisse un entusiastico “Envoi”, una prefazione. I due faranno anche un viaggio nella Loira. Poi l’amicizia si perse, con lo scandalo sessuale - e anche la poesia di Rodd. Che invece si illustrerà per essere l’ambasciatore inglese a Roma per un decennio, dal 1909 a fine guerra.

Oscar Wilde – Era un irlandese molto latino per parte di madre, Jane Francesca Agnes Elgee, una scrittrice che agli inizi si firmava Speranza, ed è quindi nota come Francesca Speranza Wilde (il nome del marito, un chirurgo dell’orecchio e dell’occhio). Lady Wilde è considerata la restauratrice del folklore irlandese, specie dei racconti di fate e spirito. Il suo bisnonno per parte materna era italiano, emigrato in Irlanda nel Settecento.
Lady Wilde era anche nipote di Charles Maturin, pastore protestante e scrittore di romanzi e drammi gotici, portato al successo da Walter Scott e da Byron, a sua volta discendente di ugonotti francesi immigrati. 


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