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giovedì 12 marzo 2020

L'africano triste e solitario

Un classico, all’uscita nel 1962, e purtroppo ancora oggi. Il “lonely” del titolo originale è più che solitario: è isolato, e un po’ triste. L’africano, anche oggi, anzi oggi più di sessant’anni fa, quando Turnbull pubblicò la sua ricerca antropologica, è isolato, nella sua stessa patria, o tribù, e malinconico.
Lanternari, aggiornando il quadro nell’introduzione a fine 1993, lo rilevava: l’Africa non si è liberata con le indipendenze. Non si è liberata da se stessa. Anzi, cinquant’anni di malgoverno generalizzato l’hanno lasciata – l’Africa a sud del Sahara – nell’arretratezza. Malgrado gli aiuti internazionali. In un quadro globale che l’etnologo vede, curiosamente, come un rischio: “I rischi ecologici, la minaccia nucleare, il pericolo dei fondamentalismi e del terrorismo incombono a livello planetario. E a livello planetario si dispiega l’emergenza droga, l’emergenza Aids, l’emergenza criminalità organizzata e la stessa emergenza immigrazione dal Terzo Mondo”. Questa soprattutto: “In questo quadro d’assieme, gli incontri fra popolazioni, le grandi ondate immigratorie, le mescolanze di etnie e di gruppi religiosi costringono l’Europa ad assumere coscienza del fenomeno migratorio nel suo complesso, e delle realtà etniche che sopravengono nei nostri territori”. Turnbull non fa che “annunciare quanto ora”, 1993, “vediamo accadere, con la seconda «fuga» dell’africano, dopo fallita la prima con l’abbandono del villaggio per la città”.
Tutto prevedibile? “Vuoto psicologico e culturale , solitudine”, insiste Lanternari, “erano, già allora, i connotati della crisi dell’africano, trapiantato”. E lo sradicamento non ha fine: “Vuoto psicologico e culturale più profondo, solitudine più desolante  sono i connotati del neo-immigrato in Europa, data l’enorme differenza d’ambiente e di civiltà”.
Resta, ma di questo non si sa con quanta persistenza, il “punto di vista” dell’africano, come Turnull lo propone nella prefazione: come l’africano si pensa e pensa il mondo. Ordinato per analisi tematiche, ognuna corredata di una testimonianza dal vivo, “in un villaggio del Congo orientale, all’epoca del regime coloniale belga” – l’indipendenza del Congo ex belga si ebbe a metà 1960. Allo spartiacque fra le contraddizioni coloniali europee e il rigetto da parte dell’Africa. L’Europa aveva introdotto in Africa l’alfabetizzazione, un minimo di convivenza tribale, e la medicina, con il concetto di lavoro esterno e di lavoro retribuito, ma non teneva l’africano per uguale, e il lavoro pagava poco più di niente. “L’africano solitario”, il capitolo finale, fa un quadro pessimista all’avvio delle indipendenze: per la detribalizzazione incompiuta e ardua, il senso comunitario di nazione estraneo, l’integrazione o modernizzazione contrastata dalle contraddizioni del cristianesimo – un messaggio arduo, e in contrasto con i comportamenti.
Notevoli i ritratti dal vivo di Nkrumah, il capofila delle indipendenze africane nel 1957, un africano ben europeo, e di un  leader dei kikuyu in Kenya di minor fortuna politica, che Turnbull chiama “Edward” – allora la gran Bretagna era in guerra con i Kikuyu, gli indipendentisti del Kenya -  ben a suo agio quando studiava a Londra, con lo stesso futuro antropologo. C’è la durezza coloniale belga, e inglese. Soprattutto dei tempi più recenti, quando i coloni erano migranti per bisogno. Un’accorta analisi del tribalismo, che avrebbe infettato il Congo ex belga ancora per un sessantennio. Fino a oggi. Della tradizione impossibile – al cap. “I maestri” – accanto all’urbanizzazione disgregatrice.
I racconti e le testimonianze sopravvivono come scene di vita quotidiana. Uno o due episodi ambientati a Bukavu, sul lago Kivu, evocano un modo paradisiaco, per la bellezza naturale e la relativa affluenza, la stessa gente e la stessa bellezza del confinante Ruanda che trent’anni dopo sarebbe stato la scena del più crudele e immotivato crimine umanitario dopo l’Olocausto – dell’Africa come avrebbe potuto essere e non è stata. Un mondo labile in tutto, a partire dalle frontiere: la ricerca dice Turnbull svolta nel Congo orientale, ma molto succede a ‘Ndola, che sarà Rhodesia e poi Zambia, mentre Bukavu è, tribalmente, Ruanda. 
Un libro – una  ricerca sul campo – della speranza, della fiducia. Sul fondo dell’uguaglianza di principio. Ma forse è qui il nodo dell’Africa: la sua storia a venire, fino a oggi, sarà diversa perché il passato e la sua eredità sono diversi
La storia dell’Africa è diversa, anche prima del secolo coloniale. E non ha mutato corso. Tribale, incapace di distinguere tra pubblico e privato (corruzione), tradizionalista a perdere. Con incredibile intuito Turnbull anticipa lo sviluppo, pur escludendolo dalla prospettiva politica, che vuole beneaugurante, “un terribile vuoto spirituale e un’esistenza priva di scopo” rilevando, “o la disperazione di un materialismo assoluto”. In una prospettiva desolante: “Soltanto il tradizionalista, con la sua duplice vita, oppure il sedicente cristiano, che interpreta le credenze della sua tradizione secondo un rituale cristiano, mantengono ancora alcune radici spirituali e morali: e pur essi debbono lottare per sopravvivere in un terreno che è divenuto sterile intorno a loro. Perfino gli africani musulmani, la cui fede è infinitamente più forte di quella degli africani cristiani, soffrono a causa di questo conflitto”. Le testimonianze, pur registrate dall’antropologo con intento empatico, sono di un indomabile devastante tribalismo. Si può dire dell’africano che nasce sradicato, in un ambiente che non è più ambiente.

Colin M. Turnbull, L’africano solitario, Dedalo, remainders, pp. 223 € 7,50

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