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sabato 14 marzo 2020

Quando si rideva del boom

Quanto di più vicino alla “scrittura di classe” che si cercava sessant’anni fa, contro “l’industrialotto”, i “dané”, il “lavorerio”, il che forse spiega l’entusiasmo di Vittorini e di (con riserve) Calvino, ma per questo ora piatto. Come critica di una stagione breve, anzi una febbre, di un mondo remoto. Compreso il disdegno generazionale per il “lavoro fisso”, “l’integrazione”, vocabolo allora proibito. Una cosa a metà ideologica, di partito, e a metà tradizionalista, alla Pasolini, più che la rivolta generazionale che seguirà negli stessi anni 1960.
Una trilogia che si legge – anche il pezzo originario, “Il calzolaio”, che ha più inventiva lessicale, più umori - come un documento d’epoca. Non degli “scarpari” vigevanesi, con la “fabbrichetta” nello scantinato e la febbre dei “dané”, un mondo a tutti gli effetti spento, quanto del naso arricciato intellettuale di fronte al boom  - “Il calzolaio” si svolge a cavaliere della guerra, ma linguaggio e personaggi sono del boom. Il personaggio del romanzo che apre la trilogia, il maestro elementare, si definisce “piccolo borghese”.
Leggendo la trilogia adesso, con l’immensa Vigevano che è la Cina comunista, con i bassi salari e l’inquadramento ferreo, come documento sociale è perfino ridicola – o una satira della satira. Tanto più in quanto è severa: un fare e disfare continuo, a fisarmonica, di un mondo in sostanza dei vinti. Il “lavorerio” consuma e non aggruma, se non temporaneamente, per caso: contro la malasorte non c’è rimedio. Ma senza pietà. Senza costrutto anche, né politico né sociale: un mondo affaccendato, ma si direbbe di stupidi.
Il primo tentativo riuscito dell’Italia di tirarsi fuori dalla povertà diffusa va in parallelo col rifiuto, con la censura intellettuale. Una dissociazione che Mastronardi, maestro elementare nella stessa Vigevano nel mentre che irrideva la città, pagherà con l’isolamento, fino al suicidio. E che resta, purtroppo, solo per quel (poco) di umoristico che sopravvive nel persistente, unilineare, programmatico, rifiuto. Di un vigevanese peraltro per buona metà acquisito, perché di padre abruzzese, un ispettore scolastico mandato d’autorità in quiescenza anticipata perché antifascista.
L’umorismo è quello “naturale” del dialetto – altra ragione che fece amare Mastronardi da Vittorini e, con riserva, da Calvino, nella stagione del tardo Gadda e del primo Pasolini. Ancora vivo nei dialoghi. Nel “Calzolaio” e, meno, nel “Meridionale”. Anche se (probabilmente) suona falso localmente, allo storico locale – Mastronardi ha anche poco della memoria storica: luoghi non-luoghi, e modi di essere, e anche di dire, forse mai esistiti di fatto. “Il maestro”, che è il racconto più vero – da maestro a maestro – è per questo più debole, per il corretto italiano. Oltre che per l’impianto: un borghesissimo “Kramer contro Kramer” – non una critica sociale, un’implosione, senza ratio, senza misericordia. 
L’edizione della trilogia è impreziosita dai saggi di Calvino, Ferretti (di Mastronardi specialista) e Maria Antonietta Grignani, con un glossario di Valentina Zerbi.

Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano, pp. 469 € 17

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