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lunedì 27 aprile 2020

Poesia buggerona

Si parlava nel primo Cinquecento come oggi, tra i coatti come tra i pariolini, specie le donne, per via di turpitudini, benché smaterializzate? Non si sa. Ma per iscritto sì. Qui per ben 198 sonetti. Raccolti poi in volume, in almeno un paio di edizioni, a Venezia nel 1539 e a Torino nel 1541 – questa dedicata a Alfonso d’Avalos, governatore spagnolo di Napoli. “In morte del ribaldaccio”, il “flagello de’ principi” ribattezzando “flagello dei c…”: per spregiare l’Aretino, l’amico, forse anche di letto, diventato nemico. Che non era morto e non pensava di morire, ma l’inimicizia era alla morte: “Che l’infame (viste prima le infamie de la sua vita) veggia ultimamente le esequie de la sua morte”, spiega il poeta – il poeta? - in premessa allo stampatore torinese, “che vivo si sia visto sotterrare da da la virtù di colui, il quale egli con la maligntà avea pensato di por sotterra”. Una tappa in una gara di “infamie”, considerato che lo stesso Franco all’ex amico aveva già dedicato una raccolta, “Rime contro l’Aretino”.  
L’oscenità era nel Cinquecento poco significante, si parlava come oggi con rivii a organi sessuali e offese dello stesso tipo - il linguaggio che usava dire sboccato. Nicolò Franco era stato un giovane dabbene. Primi studi a Benevento, dov’era nato, poi a Napoli, pregiato latinista. A 21 anni si trasferì a Venezia per accelerare il successo, e vi debuttò con un plagio. Poi si fece segretario dell’Aretino. Dopo la lite, fu al servizio di vari signori, a Casale Monferrato, Mantova, Cosenza e Napoli. Infine a Roma, regnante Paolo IV, della famiglia napoletana Carafa. Per un anno o poco più fu il beneficiario dei nipoti del papa, ma quando il papa morì, a Ferragosto del 1559, entrò a far parte di una congiura contro la sua memoria, e contro la vita dei suoi nipoti, che furono giustiziati, scrivendo un libello infamante, di prove inventate. Per questo nel 1570 sarà a sua volta fatto processare da papa Pio V, e impiccare. Ma la tentazione ce l’aveva già qui, nel sonetto, caudato,  più fortunato, il n. 80: “Buggera il papa, e tutti i suoi prelati,\ con ogni altra persona religiosa:\ or dunque il buggerare non è cosa\ che annoverar si possa tra peccati”.
La pornografia è decretata oscena nell’Ottocento, l’epoca che l’Orlando di Virginia Woolf trovò delle “tendine alle finestre”. Prima se ne faceva come di ogni altro genere letterario, sotto e sopra il bancone. Perfino, come qui, in rigidi sonetti. Interpolati da versi di Petrarca. Forse troppo esplicita e insistente, insignificante. Anche se la non difficile rima, al singolare e al plurale, il prolisso rimatore limita ai soli sollazzo e schiamazzo al singolare, e uguale al plurale, con pazzi e palazzi.

L’oscenità è materia consistente della poesia in Italia, fino al secondo Ottocento – Ammirà, “La ceceide”, celebrerà la vulva. Annalizzata a partire da Cecco Angiolieri, e soprattutto nel primo Cinquecento, con Berni, Aretino, Vignale (“Arsiccio Architronato”), Grazzini (“Lasca”), Della Casa probabilmente, Bino. Mentre contemporaneamente un buon numero di poetesse, di professione cortigiane, Tullia d’Aragona, Veronica Gàmbara, Veronica Franco, Gaspara Stampa, Louise Labé, creava la dematerializzazione dell’amore sensuale in un esasperato petrarchismo.  
Nicolò Franco, La priapea

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