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mercoledì 17 marzo 2021

I pazzi di Hölderlin eravamo noi

L’ipotesi di Agamben è che Hölderlin barasse: “In generale molti elementi che nel comportamento di Hölderlin vengono ascritti alla follia possono essere letti come il frutto di una sottile, calcolata ironia”. Nei confronti della madre soprattutto. Ma poi, pure, del resto del mondo, di chi aveva stroncato le sue traduzioni da Sofocle, condannandole per la loro “iperletteralità”: gente non da poco, Voss, l’amatissimo Schiller, Goethe, Schelling. E di chi le aveva capite ma si era lo stesso allontanato. La chiave della “pazzia” Agamben trova in una lettera di Schelling a Hegel del giugno 1803: “Dal momento che i suoi discorsi non lasciano pensare a una pazzia, egli ha completamente assunto le maniere esteriori di coloro che si trovano in quella condizione”. Recitava?
“Che si tratti di una consapevole e quasi parodica presa di distanza dagli interlocutori è particolarmente evidente nella corrispondenza con la madre, che aveva costantemente mostrato un’assoluta incomprensione per le aspirazioni del figlio, che nei suoi intendimenti avrebbe dovuto dedicarsi alla carriera di parroco”. È la madre che vuole “l’infelice” - così lo chiama in ogni circostanza - pazzo, contro le resistenze anche accanite degli amici, di alcuni di loro, specie Sinclair, che lo chiama con sé a Homburg e lo fa nominare Bibliotecario di Corte – sarà l’appellativo a cui Hölderlin terrà, fino alla fine. La madre insisterà, finché nel 1807 non riesce a farlo ricoverare in clinica psichiatrica, da dove poi verrà alloggiato in casa e a cura del falegname Zimmer, una bellissima dimora che ancora oggi si visita con piacere, a Tubinga, una torre sul Neckar con vista sulla valle. Sopravviverà di venti anni all’internamento del figlio ma non si recherà mai a trovarlo, una distanza di trenta chilometri, meno – le spese sono coperte, tramite la madre e poi la sorella del poeta, dal principato.
Le lettere alla madre Agamben ripetutamente dice “capolavori d’ironia”. In questo caso il poeta si firma Hölderlin, mentre solitamente si firma o si dice Scardanelli o altro nome di fantasia (tutti italiani nel suono), e sempre scrive cerimonioso, allusivo. Hölderlin è il “nome” da poeta, ma è il cognome, non in uso nemmeno in Germania nei rapporti familiari. Zimmer testimonia nel 1821 che l’insofferenza dei familiari è l’unica costante di umore del suo amato ospite: “Hölderlin non può sopportare i suoi parenti, e quando vengono a visitarlo dopo tanti anni si infuria contro di loro” – aggiungendo, per spiegarselo: “Ho sentito dire che suo fratello ha sposato la donna d cui era innamorato”.
Le testimonianze sono discordi – le testimonianze sono sempre discordi. Quelle di Zimmer, il falegname colto e sensibile che lo tiene a pensione per 37 anni, sono di un inquilino normale, anche se ha “parossismi”, soprattutto i primi tempi, e “inquietudini”. Suona il piano “di fantasia”, ma “se vuole suona con le note”. Scherza. Quando sta male si riguarda. Sarà sempre autosufficiente. E ama girovagare, anche per ore, senza perdersi. Per le strade di Tubinga e i campi del Neckar. La diagnosi con cui i servizi del Württemberg lo tengono in carico è benevola: “Carattere della malattia mentale: confuso. Osservazioni: mansueto. Cause: amore infelice, esaurimento, studi”. Ma poi, certo, fa le strane cose che identificano, identificavano allora, una persona come un pazzo, non violento: si rivolge agli interlocutori con “Vostra Signoria, Vostra Altezza”, si firma con nomi di fantasia (tutti italianizzanti), di nessuno dei quali è stato trovato un possibile riferimento, ripete parole senza senso, “Pallaksch”, “Wari wari”, “Conflex”. E ha – ha avuto i primi tempi - degli attacchi d’ira repressa, in cui diventa “tutto rosso”.
L’inquietudine ha avuto origine in una fortissimo esaurimento nervoso, a conclusione del viaggio di ritorno da Bordeaux, dov’era precettore, derubato di tutto e in stracci, denutrito. Così era apparso a fine giugno a Stoccarda, dopo un mese e oltre di peregrinazioni. Il 22 era morta di scarlattina, già minata dalla tisi, il suo grande amore Susette Gontard. Arrivato a casa, a Nürtigen, si scontra con la madre, che aveva scoperto la relazione con Susette, attraverso le lettere. Seguiranno cinque anni tribolati. Di cui varie spiegazioni sono state date, ma nessuna sufficiente. Era crollato per il duro viaggio a piedi? Ma era anche andato a piedi, fino a Bordeaux, tre mesi prima, d’inverno, precettore in casa del console di Amburgo. Si è finto pazzo per evitare il processo cui fu sottoposto il suo amico Sinclair, anche lui un credente rivoluzionario? Agamben non omette questa ipotesi: c’è chi dice Hölderlin vittima di Parigi e dello spirito rivoluzionario francese. Ma il processo è del 1805, non è convincente (è intentato da uno speculatore), e si risolve presto in un nulla di fatto. Hölderlin fu sfibrato dalle fatiche di traduzione di Sofocle, e avvilito dalle critiche unanimi al lavoro svolto? È possibile. Era anche solo, senza più sostegni affettivi. E una tensione non esclude l’altra.
È però anche uno che vive per trentasette anni autosufficiente. E scrive versi per i suoi visitatori in endecasillabi misurati, in rima baciata o alternata, in componimenti pregni di senso anche vertiginoso. In calligrafia, con compitazione e scrittura perfette. Scrive anche sensato in altino, riflessioni filosofiche. Le lettere alla madre, si può aggiungere, sono articolate, sintatticamente e logicamente. E molte sue idiosincrasie non sono bizzarrie. Per esempio verso Goethe, negli anni della follia di Hölderlin tronfio trombone - come Agamben maligno fa capire con alcuni estratti del suo diario: assistere emozionato “al levé dell’imperatore” Napoleone, festeggiare le decorazioni che gli giungono dagli imperatori, Napoleone, lo zar, intrattenersi a corte, a Weimar, che bene o male è in guerra contro Napoleone, della “decadenza delle feste da ballo”…
Tutto ciò che tocca Hölderlin è emozionante. Ma non  per questo si può dire che non avesse problemi mentali. Non è il solo caso, il suo, di una condizione mentale in qualche modo intaccata e di una capacità di poetare, anche versificando, più o meno intatta.
Agamben non ci sta. Non si può dire follia una vita normale per trentasette anni. La follia di Hölderlin anzi considera “come la più alta manifestazione umana e, insieme, come una beffa sublime”. Ci ha lavorato un anno, e un volume produce composito a sostegno della sua conclusione, quasi un gesto di rabbia. Con un lungo saggio in forma di prologo, la cronaca dettagliata degli anni 1806-1843, i trentasette anni passati da Hölderlin in casa Zimmer, la metà dela sua vita, un epilogo che spiega il sottotitolo, “Cronaca di una vita abitante”, una bibliografia, e l’“Elenco dei libri di Hölderlin nella casa di Nürtigen”, che mostra una biblioteca nutrita, quasi leopardiana (Hölderlin e Leopardi non sarebbe parallelo bislacco, né da poco: per la biblioteca ma non solo, per gli amori infelici, la solitudine, anche nel mezzo dei riconoscimenti, gli idilli, la concezione della natura, della condizione umana, della finitezza degli infiniti), e filosofica, in latino più che in tedesco.
L’epilogo, “Cronaca di una vita abitante. 1896-1843”, lega le testimonianze. Nella “pazzia” di Hölderlin Agamben identifica una forma dell’essere. “Vita abitante” è “una vita che vive secondo abiti e abitudini”. Non del tutto cosciente o padrona dei suoi mezzi e dei suoi modi, ma pienamente affettiva e sicuramente intellettiva. Attraverso un tracciamento linguistico solido e significativo, dal sanscrito al latino e al tedesco, abitare, abitante, abituale, abitudine conducono, spiega Agamben, a una vita “speciale”: “Una affettibilità che resta tale anche quando riceve delle affezioni, che non trasforma in percezioni coscienti, ma lascia trascorrere in una superiore coerenza, senza imputarle a un soggetto identificabile”. Come sarà di Robert Walser un secolo dopo – ma anche di molti altri, poeti e non. 
La vita insomma di un uomo, un poeta, vivo anche nella “follia”. Una tragedia, nel senso hegeliano, di conflitto insanabile tra colpa e innocenza. Oppure senza colpa – Agamben: “L’abitazione dell’uomo sulla terra non è una tragedia né una commedia, è un semplice, quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale”, comunque. La vita comune è comunque una “alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi”. Peggio: congedandosi ora da Hölderlin Agamben trova sconsolato la sua follia “del tutto innocente rispetto a quella in cui un’intera società è precipitata senza accorgersene”.
La vita insomma di un uomo, un poeta, vivo anche nella “follia”. Una tragedia, nel senso hegeliano, di conflitto insanabile tra colpa e innocenza. Oppure senza colpa – Agamben: “L’abitazione dell’uomo sulla terra non è una tragedia né una commedia, è un semplice, quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale”, comunque. La vita comune è comunque una “alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi”. Peggio: congedandosi ora da Hölderlin Agamben trova sconsolato la sua follia “del tutto innocente rispetto a quella in cui un’intera società è precipitata senza accorgersene”.
È topico dei pazzi considerare pazzi gli altri. Ma qui, ora, è diverso, intende Agamben. La società di cui dice è una civiltà, la nostra, all’epoca dei social. Della superficialità al comando della comunicazione, della stupidità. Il detective accurato, accorato, di Hölderlin si ritrova in fine anche lui in folle: “Posso forse per ora soltanto «balbettare, balbettare”, come il poeta, senza pubblico, senza interlocutori  – “Non ci sono lettori. Ci sono solo parole senza destinatario”.
Una non-biografia, dell’eroe tragico come colpevole innocente. O dell’eroe stanco. Dopo essersi congedato dagli dei, ridicoli, senza malanimo e senza rimpianti. Per adagiarsi nella “vita abituale”, e poetare nelle forme dell’idillio, non più del tragico: “Le poesie della torre – questo estremo, impareggiabile, lascito poetico dell’Occidente – sono tecnicamente degli idilli”.
Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin, Einaudi, pp. 241, ril. € 20

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