Cerca nel blog

lunedì 15 marzo 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (452)

Giuseppe Leuzzi

La Padania indipendente sarebbe stata il paese al mondo col maggior numero di contagi e di morti in rapporto alla popolazione. Non per una qualche tabe ereditaria, così, per superficialità. Da  baüscia.
Senza ravvedimento alla prima ondata, alla seconda, e ora alla terza.
 
La Liguria utilizza i vaccini anti-covid meno della Calabria. La Lombardia e il Veneto in percentuale di poco superiore – di molto inferiore a quelle della Campania, dell’Abruzzo, della Puglia.
 
A Milano molto vaccinandi della prima ondata, gli ultraottantenni, sono stati rimandati a casa, benché avessero conquistato, con difficoltà, la prenotazione.
In molte province lombarde, anche non frontaliere, si fa – si prova, malgrado i divieti – il viaggio in Svizzera, a comprarsi il vaccino.
 
Dall’inglese di Renzi, che pure da sindaco di Firenze girava il mondo come “ambasciatore”, a quello di Zaia, che pure ha consiglieri e consulenti, il provincialismo è deprimente. Anche questo pesa sul Sud, questa Italia al comando estremamente provinciale. Non c’è l’analogo in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Spagna, chi governa ha bene qualche idea del mondo.
 
A zannella
Catania, nota Carlo Levi a passeggio per la via Etnea, ama le “tipizzazioni”, che dice “una delle tendenze dell’ellenistico spirito catanese”: “C’è, pare, chi passa il suo tempo a creare nella realtà dei tipi, influenzando e foggiando, secondo un suo piano, qualche sua vittima, per il solo piacere di poterla descrivere”.
Levi non nomina Brancati, ma il riferimento è calzante. E non è solo nella tradizione etnea, Verga giovane incluso, o nello spirito ellenistico. Lo stesso “Gattopardo”, l’impianto del romanzo, è eversivo (e non conservativo!) in questa vena: antropologica, linguistica, come un’irrisione rattenuta, impietosita.
È un diverso modo di rappresentarsi in rapporto alle realtà altre – il dover essere, il resto del mondo. Affabilmente critico ma non di agevole lettura dall’esterno, come è di tutte le forme ironiche. Il  recente turismo di massa in Sicilia è raccontato da Savatteri come una mania e una smania: tutti vi si applicano, il carrozziere diventa agente di turismo, la casalinga cuoca, la casa colonica si fa agriturismo, e ci sono famiglie che dormono quattro mesi in macchina o all’aperto per “campare gli altri otto mesi” senza fare nulla.  L’analogo era forma epica ancora negli ani 1970 in Romagna: “lunedì le banche non sanno dove stipare i bigliettoni” (si pagava allora in contanti, la settimana di vacanza d’obbligo per “i tedeschi”, a pensione completa), “quattro zimmerfrei ricavate in un padiglione abbandonato”, “notti bianche per tutti i ragazzi, solo mille lire l’ingresso”, le cronache registravano il fatto sui toni della meraviglia e dell’ingegnosità.
È una forma espressiva comune pure in Calabria, ‘a zannella, dagli antichi zanni: la beffa, l’ironia, il sarcasmo, con una vena malinconica, distruttiva, nemmeno tanto sottile. In italiano formalizzata  nella Commedia dell’Arte, nelle maschere, nei canoni. In Sicilia e in Calabria sottesa a ogni comunicazione, perfino quella tragica.
Le “tipizzazioni” di Levi a Catania si possono anzi dire la forma espressiva comune in Calabria. Irresistibile. Di scrittori (in forme accentuate Répaci, Zappone, Totò Delfino, Walter Pedullà, Vincenzo Ammirà nell'Ottocento) e non - la
 performer più seguita in Calabria, Marianna Monterosso, cantante lirica, maestro del coro delle voci bianche al Politeama di Catanzaro, si diverte e diverte con un podcast irriverente, TFM, The Formazione Meridionale. Un mondo saturo di follia, nell’assetto dell’irrisione: un “vaffa” costante, ma divertito e partecipe più che vendicativo. È la forma popolare anche di humour. Un fondo anarcoide che è anche la tara della regione, linguistica e letteraria. In basso – tutti snob in Calabria, e volages, anche gli ignoranti. E in alto, anche nella brutalità – gli unici “seri”, posati, costanti, incessanti, sono in Calabria i violenti: mirati, costanti fino all’ossessione.

Questa forma espressiva le due regioni condividono per la comune latinizzazione, quindi in sintonia con i Fescennini - lo “spirito ellenistico” di Carlo Levi è vago, ne resta fuori l’area magno greca più influente, Locri-Crotone-Sibari-Metaponto-Taranto? Questo prima che, in Calabria e in Sicilia, un più severo criterio morale s’imponesse alla scrittura, per il peso dominante esercitato da Sciascia e da Alvaro.
 
Le donne meglio dei Carabinieri
Dove non poterono i Carabinieri, poterono le donne. Dopo l’incredibile strage di Duisburg, sei morti assassinati a bruciapelo a Ferragosto del 2007 da killer venuti da San Luca in Calabria l’inevitabile faida tra le famiglie Nirta e Strangio, le vittime, e i Pelle e Vottari, gli assassini, fu evitata dalle donne delle due famiglie. Su cui erano intervenuti con insistenza il parroco di San Luca, don Pino Strangio, e il vescovo di Locri mons. Bregantini, che le convinsero a bloccare la ritorsione, e le convinsero a insistere con gli uomini della famiglia.
Dal punto di vista operativo-giudiziario, era mancata la prevenzione, benché alcuni dei killer di Duisburg fossero soggetti a intercettazione. Aveva avuto successo, sebbene non a opera della polizia giudiziaria, la prevenzione delle inevitabili stragi successive, a catena. Non così però per l’apparato repressivo: per la loro opera di persuasione, e quindi per i loro contatti con le famiglie mafiose, di cui i Carabinieri produssero le registrazioni, i due prelati furono allontanati. Don Strangio perse la parrocchia (e il rettorato del santuario di Polsi) e mons. Bregantini il vescovado: da Locri, che aveva in pochi anni scosso dalla soggezione alle mafie, fu nominato a Benevento, dove cura le messe. 
Ci sono falle nella repressione antimafia. Evidenti, poiché la ‘ndrangheta in Calabria, che sessant’anni fa era nelle catacombe, rituale spento di gente da poco, è diventata invasiva in ogni ganglio della vita in comune e continua a crescere. Mentre la repressione ne sarebbe - si mostra a ogni occasione - per molti aspetti perfino agevole, molto più che nei decenni dei terribili corleonesi a Palermo, 1970-1990.
La serie di medaglioni che Lirio Abbate scrisse una decina d’anni delle donne di mafia pentite in Calabria, “Fimmini ribelli”, che ora si ripubblica in edicola, aggiunge un altro tassello a questa diversa antropologia di genere, e allo stracco cliché della “donna del Sud”. Benché limitato alle mogli giovani e giovanissime dei clan di Rosarno, i Pesce e i Bellocco, quando non a ragazze Pesce sposate Bellocco e viceversa, fa emergere una diversa tipologia di donna: quella che lascia la famiglia, benché mafiosa, per amore, senza timore di padri e fratelli.
In questo senso, con più evidenza (con meno pregiudizio?) gli stessi materiali che sono serviti a Abbate, le indagini della giudice Alessandra Cerreti, sono stati ripresi successivamente dall’americano Alex Perry, “The Good Mothers”. Li ha preceduti “L’intoccabile”, con corredo di foto molto femminili, familiari, disinvolte, di Marisa Merico, figlia e nipote dei calabresi dell’hashish e dell’eroina a Milano, dopo il pentimento della sorella Rita. 
 
Questione di morte
La “questione meridionale” così Carlo Levi descrive, senza nominarla, a un amico (una lettera di cui dà conto nella presentazione di “Le parole sono pietre”) : “Ti è mai capitato di vedere trasportare sul letto operatorio una persona la cui vita o morte interessa la famiglia e tutto il paese? Un piccolo paese meridionale dove le donne si mettono a strillare e non muovono una mano, gli uomini si accalcano, con le mani penzoloni, guardie e carabinieri accorrono a fare i cordoni, e i medici bisogna andare a cercarli a casa e arrivano alla spiccolata e la malattia e l’intervento del povero uomo da operare sono discusse mille volte e lui sta lì, con gli occh feroci, non parla e non si muove, ma, dicono le donne, l’angelo e il diavolo se lo litigano?”
Un Carlo Levi stranamente convoluto. Al coperto di una lettera, a destinatario ignoto, come di opinione in forma di conversazione. Ma ben chiaro.
 
Il debito di Garibaldi
Le fucilazioni ordinate da Bixio a Bronte poco dopo lo sbarco di Marsala nel 1860 contro i contadini e i liberali borghesi che reclamavano la distribuzione delle terre infeudate, fu un risarcimento dovuto da Garibaldi agli inglesi? Per un debito contratto con gli inglesi, con le logge inglesi? Erano le logge i dante causa della spedizione dei Mille contro i Borbone e il papa? L’ipotesi è adombrata da Carlo Levi nel capitolo “Bronte” dei suoi racconti di viaggio in Sicilia, “Le parole sono pietre”, là dove spiega che la rappresaglia di Bixio fu pretestuosa. C’erano stati eccessi – incendi, assalti alle persone – ma erano stati domati. “Agli occhi dei contadini di Bronte la conquista garibaldina non poteva avere che un senso:  il possesso delle terre, la libertà dal feudalismo”, questo il presupposto della rivolta, guidata da avvocati liberali. Ma “Garibaldi, pressato dal console inglese di Catania timoroso per le sorti della Ducea, mandò Nino Bixio a rimettere ordine Nino Bixio giunse a cose già calme, dopo che un altro garibaldino, il colonnello Poulet con una compagnia di soldati era già pacificamente entrato in Bronte. Bixio fu feroce. Con una parvenza di processo, fucilò immediatamente i capi della rivolta”. Cinque fucilazioni, compreso il pazzo del paese. Levi conclude con una coda velenosa - come a dire: “quello che non avevano fatto i Borboni fece Bixio, o Garibaldi”: “Tra essi un avvocato, Nicolò Lombardo, un liberale che aveva già guidato in Bronte i moti del ’48”.
Garibaldi, legato al governo inglese per via massonica, era stato favorito allo sbarco a Marsala, dalla presenza nel porto delle navi da guerra inglesi “Argus” e “Intrepid”. Una presenza non casuale: le due navi erano state fatte salpare da Palermo, incrociare per più giorni al largo di Marsala, ed entrare in porto, impedendo il cannoneggiamento da parte delle batterie borboniche di terra, tre ore prima dell’arrivo dei Mille. 
 
Calabria
Alla domanda “Come stai?” la risposta non è “Bene grazie”, ma “Non c’è male”, “Non possiamo lamentarci”…. Una formula apotropaica, di scongiuro, ma a ben guardare più veritiera - che significa “bene”?
 
Di ritorno dalla Sicilia nel 1952, Carlo Levi fece un giro per la Calabria, accompagnato da  Scotellaro, incuriosito dalla riforma agraria dopo l’occupazione delle terre. In una casa dell’Ente Riforma un assegnatario insiste per fargli vedere la stalla, “splendida di pulizia e di ordine”, dove al centro troneggia una vacca, “una grande vacca bianca, lucida, pulita, con una coroncina di fiori sul capo”. Carissima: costata 180 mila lire, prezzo imposto al contadino dall’Ente Riforma con obbligo d’acquisto, più le spese per il foraggio. E inutile: non è da latte, “è una vacca da lavoro, e le terre che mi hanno assegnato sono a quattro ore di qua”, spiega l’uomo. E conclude filosofico: “L’ho chiamata Bellavita, è la sola persona che faccia la bella vita in questo paese”. Della seria “a zannella”.
 
A Cosenza, in un mercatino, Carlo Levi è sedotto da un capolavoro d’eloquenza: “Dietro un tavolino, un uomo vestito di fustagno mostrava dei portafogli. Non costavano mille, né cinquecento, né duecento, né centocinquanta ma costavano solo cento lire: «Guardate , sono di finta pelle e ci sta tutto, hanno due tasche. In questa potrete mettere la moneta minuta, e i documenti, le tessere, la carta di identità; e in quest’altra ci metterete i denari, i biglietti da dieci e da cinquemila, e se non li avete, i biglietti da mille; e se non li avete, allora ci metterete le lettere del padrone di casa, le ingiunzioni di sfratto, le ricevute dei prestiti, i conti dei debiti con l’Ente Sila; e se non avete neppure quelli, allora ci metterete la vostra disperazione, e la mia. Guardate, sono solo cento lire: è foderato di seta»”.
 
Nella casa dove nacque il sindaco di New York Impellitteri, a Isnello in provincia di Palermo, “ci vive un calabrese”, nota Carlo Levi reporter d’eccezione per il nostos dell’illustre personaggio nel 1951: “Guadagna tremila lire l’anno facendo qualsiasi lavoro”, cioè non guadagna niente. In casa “non si poté entrare in molti perché il pavimento, dissero, era pericolante e non avrebbe retto al peso”.
La geografia della miseria è mobile - si dice dell’emigrazione, ma l’emigrazione è un’altra cosa: il futuro sindaco da Isnello a New York, il calabrese dal paese alla casa abbandonata del futuro sindaco di New York.
 
Cinquant’anni fa Lina Wertmüller si orientava, volendo fare un film di malavita, sulle donne calabresi. Le mogli e figlie di famiglie di mafia che si ribellavano.
 
Marisa Merico, l’autrice de “L’intoccabile”, il primo racconto-testimonianza dal di dentro delle donne di mafia, su cui nel 2015 ha realizzato un docufilm, “Gli intoccabili”, è nipote, figlia del figlio prediletto Emilio, della regina della droga a Milano Maria Serraìno. Si è “pentita” per un attacco di combattività. Al carcere duro in Inghilterra a 24 anni, madre di una figlia di pochi mesi, tra regolamenti severi e compagne di cattività cattive (pluriomicide, serial killer, assassine di bambini, anche dei propri figli), si dice: “Devi essere forte, far fronte coi tuoi soli mezzi pur obbedendo alle regole”. Lo stesso alla fortuita liberazione: “Ero stata stoica e forte, e decisi di restare tale per sopravvivere all’esterno”.
 
Maria Serraìno, da Cardeto, nell’Aspromonte dietro Gambarie, borgo immune alle cronache nere, coltivando con maestria le varie forme della tarantella, del suono e del ballo, moglie di un contrabbandiere di sigarette condannato 65 volte in 35 anni, è stata per un trentennio, 1970-1990, “La Signora” e “Mamma eroina” a Milano, dove praticò di tutto, dalla ricettazione allo spaccio e all’usura, liberamente in casa sua, in via Belgio attorno a piazza Prealpi. Con sfoggio di fuoriserie e stravaganze dei figli, specie del primogenito, che liberamente intermediava i fornitori sudamericani a Marbella, la Forte dei Marmi spagnola. Indisturbata, fino a che la figlia Rita, in crisi di eroina, non crollò, si sfogò, e gli ergastoli furono obbligati.
 
“Fimmine ribelli”, il doculibro di Lirio Abbate sulle pentite di ‘ndrangheta, s’illustra con questo “strillo” di copertina, di Francesco La Licata: “Una Calabria molto più crudele di quanto possiamo immaginare”.
 
Abbate inizia il suo libro sulle donne calabresi di mafia che si ribellano con questa conclusione: “Non è raro che i preconcetti, in questa terra, prevalgano sulla giustizia”.
La Licata è di Palermo, Abbate pure. 

leuzzi@antiit.eu

Nessun commento: