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venerdì 24 settembre 2021

L’opera alla porta chiusa

La cervellotica messinscena di Livermore, tra un bosco di druidi e un salotto chippendale, nella Gallia occupata dai Romani?, fa uso anche del “canto alla porta chiusa”, paraklausíthyron, il lamento d’amore dell’elegia greca e romana, per due dei momenti più alti: tra Adalgisa e Pollione a metà del primo tempo, e tra Norma e Pollione nel secondo. Una scena senza scena, che lascia i cantanti liberi di cantare, duetti e arie pieni di fascino – e di tecnica vocale. Nei momenti chiave dell’opera, le due vicende di amore\morte. La produzione si salva così.
Un’occasione sprecata. Anche perché la compagnia di canto è magnifica. Marina Rebeka (Norma) e Stefan Pop (Pollione) cantano con una naturalezza sovrumana. E Annalisa Stroppa (Adalgisa) che ha da cantare più di Norma, e il basso, Dario Russo (Oroveso), nei suoi due interventi. Rebeka ha una potenza canora ecezionale, canta si può dire a bocca chiusa, non ha bisogno di fare smorfie. La stessa naturalezza, con in più la dolcezza del timbro, in Pop.
Il lamento alla porta chiusa è una trovata buona – almeno non costosa – dentro una trovata generale faticosa, oltre che stravagante. Livermore, all’improvviso regista-scenografo di tutta l’opera italiana, da Catania a Firenze (una “Traviata” fa seminuda – una bella schiena si pubblicizza, di Caterina Piva?) e alla Scala, fa rivivere “Norma” alla prima al teatro milanese nel 1831, dove non fu ricevuta bene: con gli spettatori primo Ottocento, e gli interpreti – assommati in Giuditta Pasta, una sorta di uccello del malaugurio che presiede muta a ogni scena (eccetto i paraklausíthyron, per fortuna) – in un tripudio di tricolori, coccarde (che però vennero dopo, nel 1848) e bandiere.
Una ricostruzione che si pretende filologica. Gli interpreti non la cantarono bene, fa sapere Livermore (ma noi che ne sappiamo?). E il pubblico, che si aspettava un inno contro lo straniero, restò deluso dalla vicenda di amore\morte. Mentre si sa che l’insuccesso alla prima in realtà fu un infortunio, l’Austria non c’entrava, “Norma” ebbe ben una trentina di repliche, affollate, e fu subito adottata nei maggiori teatri europei.
Per tacere di altre incongruenze della messinscena. Pollione è ben un proconsole romano, ma viene trattato come uno scemo, gli danno buffetti, anche un sberla. Adalgisa è ben una vestale, ma viene fatta muovere come in una soap-opera, si sbaciucchia perfino. Per non dire del coro, tanto capace melodicamente quanto dissennato scenicamente. Ma non è questione di filologia: è una rappresentazione che fa di tutto, eccetto che nelle due scene-madri dei paraklausíthyron, scenicamente ridotte a intermezzo, per distrarre dalla musica e dagli interpreti. Non è bastato il recupero prezioso delle ragioni dell’opera che la Rai ha fornito con le presentazioni di Stefano Vizioli, agile e suggestivo. L’opera ha questo di “strano” – come del resto tutta la musica: che si ripropone, e quindi che l’ascolto è un fatto di memorie e di sfumature.
E poi c’è Pollione. Pop, malgrado la bellezza della voce, è del tutto incongruo in tv. Non ha il fisico del ruolo. Che non sarebbe male, se non che Pop (o il regista) non se ne cura. Non a torto, se vogliamo, il libretto non gli è clemente: è l’uomo sciocco che sta tra due sedie. Ma, purtroppo, Pop così si comporta: sta nel dramma solo attento alle intonazioni e ai tempi, visivamente inespressivo. E in tv è terribile – il dramma gira attorno alle sue indecisioni, agli innamoramenti, agli abbandoni, alla superficialità, alle accensioni.
Fuortes, il nuovo capo della Rai, che dall’Opera di Roma ha fornito almeno tre spettacoli alla reti Rai nazionali, con ottima risposta di audience, dovrebbe prenderne nota. Se l’opera, com’è probabile, è una miniera di ascolti, conviene far apprestare regie che in tv non siano ridicole, e facciano risaltare la musica. Coinvolgendo magari la Rai nella produzione – non lo fa, con tanto utile, per il cinema?
David Livermore, Norma, Teatro Massimo Bellini, Catania – Rai 5-Raiplay

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