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sabato 8 gennaio 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (479)

Giuseppe Leuzzi

Una legge due anni fa introduceva un forfait Irpef molto basso, il 7 per cento del reddito, comprensivo delle addizionali regionali e comunali, per i titolari di pensione estera che trasferivano la residenza fiscale al Sud, in paesi di non più di 20 mila abitanti. Con l’intento di ridurne in qualche modo lo spopolamento, gli abbandoni. La raccolta fiscale è stata di soli 150 mila euro, 75 mila l’anno. Il Sud non attrae nemmeno regalato.  
 
Romanzi padani
“Ammiro Umberto Bossi, il Davide padano. Un politico vero: geniale, folle, imprevedibile. Di lui non condivido le finalità e non apprezzo né linguaggio né stile, ma è un dono per chi fa lo scrittore. Negli ultimi cinquant’anni nessuno lo eguaglia. Neppure Tolstoj o Dostoevskij avrebbero saputo riscattare dalla (letteraria) mediocrità Togliatti, Fanfani o Andreotti. La battaglia contro Golia-Berlusconi è stata un capolavoro. Ora minaccia di dividere lo Stato. Ci riuscirà? Difficile, è un protagonista senza comprimari e un difetto lo ha: il magnetismo non irresistibile”. Ci è riuscito, a fare il Tolstoj, Vassalli con Bossi, a riscattarlo dalla (letteraria) mediocrità?
“7”, il settimanale del “Corriere della sera” evoca, per la serie “Le firme storiche”, questo articolo di Sebastiano Vassalli, pubblicato venticinque anni fa, il 13 agosto 1996. Vassalli, genovese di nascita, è scrittore piemontese e padano, avendo vissuto tra Novara e Casale Monferrato. Innamorato di Novara e del Piemonte, ma anche di Dino Campana a Marradi, uno scrittore che si radica nel territorio. Può per questo avere sentito il fascino perfino di Bossi. Nell’articolo non è così perentorio come nel sommario (come nel sommario, però, dimentica Moro tra i grandi mediocri prima di Bossi – sia lo scrittore che il quotidiano l’hanno trascurato). Ma l’inventore della Lega – che vivacchiò da outsider poco considerato, se non fuori di testa, per un quindicennio, va ricordato – tiene in grandissimo conto. Come “uno dei pochissimi uomini politici che abbiano movimentato la storia dell’Italia unita”, l’unico che regga il confronto nella storia repubblicana con Garibaldi, Crispi e Mussolini. L’intento agiografico è palese. Del perdurante disdegno lombardo in cui Bossi visse a lungo nota soltanto che Bossi lo apprezzava – un topos delle vite dei santi, che crescono incompresi ma tengono duro: “Soltanto un commentatore politico non digiuno di lettere, Giorgio Bocca, intravvide già allora la grandezza del personaggio”. Che lui personalmente dice “l’uomo politico più nuovo e geniale apparso sulla scena italiana nell’ultimo mezzo secolo”, cioè dalla fine della guerra. E a riprova porta il tradimento di Bossi contro Berlusconi nel 1995, in obbedienza alle trame di Scalfaro: “La battaglia del Davide padano Bossi contro Golia-Berlusconi è stata un capolavoro di politica di movimento” – “e la notte in villa ad Arcore, con il cuoco svegliato alle tre del mattino e la passeggiata in canottiera nel parco, è letteratura allo stato puro. Di più: è epos”. E non è finita: “Umberto Bossi giganteggia”.
Un caso di vanità letteraria, anche se Vassalli se ne professava – e sembrava lo fosse – immune. Come se Berlusconi non fosse più padano di Bossi. E tacendo – non sapendolo? – che Bossi quattro mesi prima senza Berlusconi aveva fatto vincere le elezioni al suo nemico Prodi (alle elezioni successive, 2001, arriverà al 4 per cento, la rappresentanza minima che la legge Mattarella imponeva per l’accesso al Parlamento, con i pochi voti deviati da Berlusconi).
Ma, a proposito, è più romanzesco Bossi oppure Berlusconi?
Romanzi padani, sempre, per l’Italia.
 
Si volge lo sguardo in basso
Ognuno agisce liberamente nel campo che si trova libero dinnanzi. Che è stato, in parte, predisposto, dal caso o con applicazione, sacrificio, intelligenza, furfanteria, o fortuna. Ma c’è un Nord che si fa aria respingendo il Sud. Inspiegabilmente, senza titoli. S’immagina Mr. Livingstone, e l’Henry Morton Stanley nobilitato, o Richard Francis Burton, che fu ottimo scrittore d’altri, in figura di un Alessandro Magno delle terre incognite. Invece è normalmente un magrolino di cui la barba non protegge il pallore, corroso dal sole della savana, dall’umido della foresta, dall’ulcera e dall’inutilità, in lite con la moglie a casa e coi portatori in viaggio, normalmente dispeptico, giornalista disadattato o missionario di poche risorse, di dignità non eccelsa rispetto agli indigeni che svilisce. Ma l’atto del gettare va dall’alto in basso, da Amburgo alla Baviera, da Calais a Marsiglia, e non si può il contrario: che a Reggio Calabria, dove per secoli hanno pagato la magra economia dello stocco norvegese, si dica la Norvegia impresentabile, o alla corte del Negus si rida dell’ultimo mercante di fucili ad avancarica, sia pure Rimbaud. Il regno meridionale è Misspellheim nella mitologia nordica, il luogo del mispelling, la cattiva compitazione. Un refuso.
L’etnologo che giudica Gengis Khan o il prete Gianni, o Egill il valoroso vichingo, più spesso senz’altra conoscenza diretta che un vecchio libro a sua volta inventato, è un frate, un mercante, una spia o un maestrino ardente, in cerca della particolare gloria che consiste nel poterla raccontare agli amici, ogni volta daccapo con più particolari. Gente di poco conto e poco credito fa la storia. A un certo punto si trova un giovane Coleridge, che sfrutta la fama del padre Samuel, e lancia il genere della Biographia Borealis, o Vite di Settentrionali Distinti. La storia è un racconto, e chi trova ascolto la fa: basta un pubblico a creare un eroe, o il cattivo, e la sua fama.
 
Ridere sotto il vulcano
Fiorettando su Massimino, il padrone ignorante del Catania calcio in serie A, Francesco Merlo, catanese, evoca casualmente, fra i tanti lampi con cui anima  la rubrica della posta di “Repubblica”,  una città siciliana col gusto della comicità verbale. Angelo Musco e Turi Ferro, che Merlo cita, e Martoglio, e Brancati naturalmente. Ma i grandi “veristi” Capuana e Verga non si sottraevano, nelle corrispondenze, nell’aneddotica, anche nella narrativa, e De Roberto. Per non dire di Domenico Tempio, “lu munnu va n’arreri”, una grandezza dimenticata forse perché è del Settecento.
Curioso, ci sono geni culturali locali – nel senso biologico, genetico. Attorno ad Agrigento, per restare in Sicilia, l’iperintelligenza del caso, da Empedocle a Pirandello e Sciascia (anche se Camilleri ha messo molta sabbia nell’ingranaggio). Attorno a Palermo, città di corte, storie e versi di corti e cortili – poche, a corte non si legge: Tomasi, Consolo (Sant’Agata di Militello è a metà strada tra Messina e Palermo), Agnello Hornby, Piazzese.
Catania, sotto il vulcano, ride e fa ridere.

leuzzi@antiit.eu

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