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giovedì 30 giugno 2022

Il realismo di Kissinger

Un ritratto acido, per quanto l’età di Kissinger, 97 anni due anni fa, lo consentiva. Nelle prime righe l’insinuazione che lavorasse per la Cia nei seminari estivi di politica estera che organizzava a Harvard negli anni 1960. Mentre si sa che non è vero – ai seminari parteciparono anche intellettuali italiani sicuramente non da sottobosco, Furio Colombo, Arbasino, La Capria. Dopo l’insinuazione che usasse la rivista “Confluence”, che dirigeva sempre per conto di Harvard, per sdoganare ex nazisti. Meaney fa il nome di Ernst von Salomon, il quale invece era un nazionalista e basta, e come scrittore era ammirato e tradotto dal giovanissimo Giaime Pintor. Mentre viceversa Kissinger colloquiava con Vittorini, Alvaro, Moravia, Enriques Agnoletti (“Il Ponte”), Valiani - o Hananh Arendt, e tanti altri, Adriano Olivetti ne farà una pregiata antologia.
Alla fine si corregge. Sono eccessive, dice, falsate, le biografie di Christopher Kitchens, “The Trial of Henry Kissinger”, 2001, che fa di Kissinger un criminale di guerra, e di Seymour Hersch, “The Price of Power”, 1983, che lo vuole uno squilibrato paranoico. Nel mezzo, non può non ricordare che è uno che ha capito la funzione della Cina nell’equilibrio internazionale, nella balance of power  dei manuali diplomatici, nel pieno della Guerra fredda, nel 1973,  le ha aperto l’America, da solo. Mentre volava a Mosca, la Mosca di Breznev, per imporre i visti a chi desiderava lasciare il paese. E chiudeva in Vietnam la peggiore sconfitta militare di tutti i tempi, in mezzi e in armi, se non in morti e mutilati – lo scacco più grave del concetto americano di potenza, ancorato al western: più forza più Potenza. Mentre insegnava agli sceicchi ancora attendati della penisola Arabica - mezzo secolo fa erano ancora attendati– e allo scià di Persia che il petrolio poteva e doveva triplicare di prezzo, per rilanciare gli investimenti, negli Stati Uniti.
Un personaggio sicuramente extralarge per l’America. Da cui si tiene curiosamente distante, continuando a parlare a cento anni, e dopo aver convissuto con una moglie wasp, con l’accento tedesco di quando ci arrivò emigrando bambino. Che resta la potenza forte e rude della sua ideologia del West, con poca cultura del mondo, se non per l’occasionale intelligenza di F.D Roosevelt, del generale Marshall, di George Kennan, di Adlai Stevenson. Che ama più di tutti i suoi capi più disastrosi, Kennedy, Reagan - il saggio la rivista
originariamente intitolava “The Wages of Realism”, come a dire l’abbiamo avuto, questo contabile della politica estera, e ce lo teniamo. Ma ancora ieri in grado di spiegare a Londra, ai giornalisti inglesi interessati alla serie di ritratti di grandi personaggi politici che pubblica col titolo “Leadership”, che la Russia è parte della storia dell’Europa, coinvolta anzi “in alcuni dei grandi trionfi della storia europea”. Elementare. Come a dire: sradicarla sarà difficile se non impossibile. Sarà Realpolitik, ma ci vuole intelligenza – un minimo nella fattispecie.
Thomas Meaney, The Myth of Henry Kissinger, “The New Yorker” 18 maggio 2029, anche audio, free online

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