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mercoledì 22 marzo 2023

Il romanzo di Mosè, autore Freud

Il primo esito delle sue riflessioni sulla Bibbia Freud elaborò in un primo tempo, nel 1934, come “romanzo storico”. Si sa che di Mosé si sa poco o niente, delle sue origini, la formazione, la vita, giusto il minimo particolare che fu salvato dalle acque – l’elemento su cui compirà poi il suo grande miracolo. Da qui la tesi, poi di Freud, che fosse un “generale” egiziano, a cominciare dal nome, che non è ebraico. Ma nel 1934, non ancora in esilio, ma già sotto la dittatura di Hitler, Freud non se la sentiva di ribaltare uno dei nodi principali della Bibbia, e per questo adottò la forma romanzo. Che non pubblicò.
Le stesse riflessioni che aveva elaborato in forma di romanzo poi rielaborerà criticamente, tra il 1934 e il 1938, pubblicando l’esito nel 1939, a Amsterdam, sotto il titolo “L’uomo Mosé e la religione monoteistica”, in forma di “tre studi”. Anche se manteneva, rafforzati, gli stessi scrupoli che l’avevano dissuaso dalla pubblicazione cinque anni prima – apriva il volume con una excusatio: “Spiegare a un popolo che non rientra nella sua identità uno che essso celebra come il più grande di tutti i suoi figli non è qualcosa che s’intraprende di buon cuore o alla leggera, a fortiori quando si è se stessi parte del popolo in questione”. Erano anche gli anni in cui Mosé assurgeva a nuovo ruolo nell’ebraismo, nell’ambito del sionismo che da lì a poco sfocerà nella creazione di Israele, come simbolo e guida.
Mosé, Freud confidava a Lou Andreas Salomé, lo aveva “perseguitato tutta la vita”. Decidendo nel 1934 di non pubblicarne il “romanzo”, Freud spiega a Max Eitingon, lo psicoanalista russo-tedesco emigrato l’anno prima in Palestina: “Una parte del testo infligge gravi offese al sentimento ebraico, un’altra al sentimento cristiano, due cose che è meglio evitare nell’epoca in cui viviamo”. Introducendo il Mosé “romanzo storico” cinque anni prima, Freud si pone invece il problema della verità. A partire dalla formula “romanzo storico”: “Per me inventare e romanzare sono facilmente legati all’errore”.
Il suo romanzo storico di Mosé parte dal metodo scientifico: “Trattare ogni possibilità offerta dai dati come una base di lavoro, colmando poi le lacune tra un frammento e l’altro secondo il principio, per così dire, della minore resistenza, cioè favorendo le ipotesi che ci sembrano più probabili”. Una storia ipotetica, insomma. L’esito è quello noto, dei tre studi, un po’ meno conciso – ma più leggibile, seppure non convincente.
Sotto forma di “romanzo” scientifico, di ipotesi fantasiosa ma a fini di credibilità e non a sensazione, Mosè era già un classico negli anni di Freud. Dal 1790, quando Schiller pubblicava sulla rivista “Thalia” “La missione di Mosè” – Schiller è stato storico valente, prima che drammaturgo. C’era la rivoluzione francese, ma Schiller si impegnava a rielaborare, in parte confutandola, la prolusione un anno prima a Jena dell’illuminista framassone Carl Leonhard Reinhold. Con un testo fitto, di una quindicina di pagine, come la prolusione. Nell’ambito di un Antisemitismusdiskurs, un dibattito sull’antisemitismo. Schiller fa nascere la parola “ebrei” con la fuga dall’Egitto, un nome spregiativo dato ai riottosi israeliti dal faraone, che li aveva confinati in aree separate. Ma non fa di Mosè un egiziano, bensì il figlio di un’ebrea fatto crescere con un trucco dalla figlia del faraone, e quindi a scuola dai preti, dai quali apprende i Misteri di Iside. È per questo un capo opportuno ma anomalo per gli ebrei.
Il “romanzo” è più teorico che storico: Mosé non sfugge al complesso di Edipo, al complesso della liberazione – un padre padrone per gli ebrei. La salvezza degli ebrei viene dal riconoscimento della colpa per avere misconosciuto il padre Mosé. Una “colpa” che grava sugli ebrei, ma ne è anche la forza. Poiché ne precisa e salvaguarda l’identità. È la conclusione del romanzo: “La nostra indagine ha forse fatto un po’ di luce su come il popolo ebraico abbia acquisito le qualità che lo contraddistinguono”.
Vale la pena ricordare qui la perplessità che Voltaire faceva valere nel breve scritto “Auteurs”, 1770 ca, rifacendosi alla “Histoire de la philosophie” del “buon abate Bazin”, che “mai nessun autore ha citato un passaggio di Mosè prima di Longino, che visse e morì al tempo dell’imperatore Aureliano”. Il nome era noto, Giuseppe ne parla più volte, ma nessuno cita un detto o uno scritto, nessuno dei profeti autori dei libri biblici - “benché egli sia un autore divino”, aggiungeva Voltaire.  
Con una prefazione di Giovanni Filoramo, lo storico delle religoni, che fatesto a sé, per ampiezza e impianto. E il commento di Thomas Gindele alla primapubblicazione dell’inedito, emerso alla Biblioteca del Congresso di Washington, che conserva i cartoni con i manoscritti che Freud non ha distrutto.
La prima pubblicazione è stata fatta in francese, Chiara Calcagno traduce dal francese la nota al testo di Gindele, germanista francese, che ha curato la prima pubblicazione. Johanna Venneman traduce il romanzo dall’originale, un manoscritto in corsivo tedesco, una scrittura praticata fino alla guerra, che Freud usa in modo molto pulito, anche nelle cancellature, ma è di per sé una selva di ghirigori.
Sigmund Freud, L’uomo Mosè. Un romanzo storico, Castelvecchi, p. 384 € 25

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