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domenica 25 maggio 2008

Il mondo com'è (10)

astolfo

Colonialismo - La miseria delle colonie andrebbe ridetta, poiché l’Europa continua a vivere a a quell’ora, superba, indisponente. Il colonialismo è sempre straccione: torme di spocchiosi e disadattati, i migliori erano semplicemente poveri, riversati in Africa negli ultimi decenni dell’Ottocento con le promesse sottintese di scopare a piacere e dirsi superiori ai migliori africani. Masse di indigenti catapultati conquistatori in Africa, e per questo stesso fatto promossi, nobilitati, eroicizzati. Per il potere nella forma più turpe, dei ranocchi che si proclamano re. Con corredo di apologeti, etnografi e antropologi, della superiorità e dei destini manifesti, delle missioni civilizzatrici, di culture fondate sui fucili, i pantaloni col risvolto e il sangue bianco. Un progetto insano, prima che cattivo, e in netta perdita per la dignità, nonché per le casse degli Stati, che il danno subirono ingente. La Libia di Mussolini ne è epitome ingloriosa, che tra le grandezzate di Balbo e le nequizie di Graziani non cercava il petrolio - si dice che non l’ha trovato e invece non l’ha cercato, Desio ha ragione, ai suoi geologi era incomodo anche solo parlare coi miserabili fellah, che le fiammelle utilizzavano.
Tutt’altra cosa, andando a ritroso, i posti di commercio che portoghesi, genovesi e veneziani aprivano all’Est, sulle coste del Mediterraneo o dell’Oceano Indiano, che trattavano alla pari, seppure arricchendosi, con gli arabi e ogni altro asiatico, il commercio non ha mai fatto male a nessuno, il doux commerce degli illuministi. Tutt’altra cosa la conquista dell’America, che aveva un disegno e una convenienza, anche se perversi, avendo sortito la storia più brutta dell’umanità, tra razzie e schiavitù: l’imperialismo è un disegno, seppure in perdita. Il colonialismo è un disegno della peggiore stupidità europea, l’era dei primati nazionali. Che si esercitano nella violenza: siamo superiori.

Imperialismo – È furbo: tesse le fila ma non fa la rete. In questo senso Mao ha ragione, è una tigre di carta. È anche efficiente. In Kipling è perfino coraggioso.
Il governo britannico impose nel 1741 allo zar con apposito trattato commerciale l’obbligo di vestire l’esercito di lane inglesi. Ma le lane inglesi erano buone. “La nozione di oppressione è una stupidaggine: non c’è che da leggere l’“Iliade”. E, a maggior ragione, la nozione di classe oppressiva”, già Simone Weil aveva un’altra nozione dell’imperialismo tigre di carta: “Si può soltanto parlare di una struttura oppressiva della società”.
L’imperialismo è un programma su una corda tesa: non si governa con la polizia, e nemmeno con i missili. Almeno questo il Novecento avrà insegnato, al prezzo di cento, centocinquanta, milioni di morti assassinati, con le pallottole, le bombe, il gas, il veleno, il machete, una verità semplice: la libertà è difficile, certo è un’utopia, ma il potere non può che limitarsi. Per totalitario che si voglia o sia. Il massimo di potenza è impotenza, e preavviso di deflagrazione: il Novecento avrà sperimentato la politica totalitaria solo per provarne i limiti. L’equilibrio del terrore, era chiamato ed è, ma è intollerabile, tanto più per venire nel nome della democrazia. La deterrenza è minaccia costante, rinnovata, sovraeccitata. Ed è vero dominio, che il mondo ordinato vuole sotto di sé, obbediente, disciplinato, uniforme.
Gli inglesi hanno avuto il buonsenso di non farsi fare guerra. Niente Indocine né Algerie. Quando l’India ha marciato sul serio si sono ritirati. Anche in Sud Africa, purtroppo. E a tutti hanno dato, col passaporto, parità di diritti, giamaicani, pakistani, cingalesi. La violenza è generale, anche dei poveri. Dum-dum era la ragione sociale di una fabbrica di pallottole di Calcutta: se ne sbrecciava la punta per un motivo residuo della tratta dei negri, per essere la pelle degli africani più dura. Ma c’è nella violenza un più e un meno. O un disegno, violento è il male fine a se stesso:
L’India non ha cattiva memoria dell’Inghilterra. Sarà perché il primo inglese ad affacciarsi sull’oceano Indiano fu, nel 1580, un gesuita, Thomas Stevens. Gli inglesi hanno imposto al mondo la rasatura ogni mattina, per vendere il gillette. Ma il rasoio è buonissimo. Oppure si può dire al contrario: dovendosi radere ogni mattina, gli inglesi fecero un ottimo rasoio. Il segreto dell’imperialismo è semplice, direbbe Dickens: “La Provvidenza ha fatto un grande onore a confinare l’indomabile flotta inglese in una nazione così piccola, in mezzo a tanti popoli corrotti”. Questo vale anche per i romani, che all’opposto si indianizzarono: avevano di sicuro una loro poesia i fescennini dei romani, i canti saliari e il ritmo saturnio, ma Roma vi rinunciò grecizzandosi.
È vero che l’imperialismo può essere nemico del capitale, inteso come arricchimento, la potenza ha un’altra logica, o il fascino dell’azzardo, che sempre è perdizione. Anche due volte nemico, se hanno ragione quelli che pongono la potenza, cioè la conquista e la guerra, all’origine del progresso più che della ricchezza. L’India fu conquistata per espandere il mercato. Poi fu usata per limitarlo, nell’interesse di questo o quello, nemmeno tanto grande, produttore britannico di cotonate. L’imperialismo lasciato a se stesso, all’espansione irrefrenabile, esclude anche il terzomondismo, Antonio Negri ha ragione, la sentimentale nostalgia dell’uomo nudo - o della donna: trattati se ne potrebbero scrivere, Freud questa se l’è lasciata sfuggire, il desiderio della madre nera. L’imperialismo è distruzione, sinonimo di guerra. Agli indiani d’America, che i missionari con terrore vedevano sparire a occhio. O a Lepanto, dove non ci furono turchi prigionieri, e neppure feriti, tutti i venticinquemila morirono.
Ma non c’è simmetria tra i due imperialismi, non c’è reversibilità. Lepanto e la Conquista furono guerre di religione, in campo era il prete, direbbero Michelet e Le Goff, e non il mercante. E con le multinazionali l’imperialismo diventa impossibile, si trasforma nella democrazia come mercato di Bentham e Constant. Il sistema sociale di controllo può esservi altrettanto ramificato, ma non vuole l’anima come invece chiedeva il Pcus, con la scusa del Diamat, del povero Marx. È per questo che il Commercio ha abbattuto il Muro.

Indipendenza – L’esperienza mostra nel Terzo mondo un pattern ricorrente: le società e gli Stati deperiscono, talvolta mortalmente, man mano che si allontanano dalle ex madrepatrie, dai modelli culturali coloniali, e si nazionalizzano. I casi dell’Uganda civilissimo di Milton Obote, dissolto da Idi Amin, o del Kenya di Kenyatta e Tom ‘Mboya rispetto ai tribali successori, o di Mugabe nelle sue due incarnazioni, di leader antirazzista anglofilo, e poi di despota indigenista che ha immiserito e disintegrato la Svizzera dell’Africa. Il Ghana superbo di ‘Nkrumah quarant’anni fa, senza paragone con la miseria economica e morale di oggi. L’ex Dahomey, che era la Sorbona dell’Africa, Il Senegal di Senghor, poeta e accademico francese, al confronto degli affaristi che poi l’hanno impoverito. La Costa d’Avorio di Houphouët-Boigny, deputato socialista francese, e quella dei suoi incapaci, tribali, suicidi successori. Talvolta il cambio è stato imposto dall’ex madrepatria, per motivi politici contingenti. Idi Amin, il fuciliere che sarà “cugino della regina”, fu espediente contro la sponda pericolosa di Obote all’Urss in Africa.
Paesi sulla via dello sviluppo, comunque al ritmo dei tempi, sono stati disintegrati, talvolta anche territorialmente. Solo per essere passati dall’apparato del colonialismo e dell’imperialismo, con un’amministrazione, una costituzione e un sistema giudiziario all’indigenismo sregolato. Ciò è reazionario ma è vero. È reazionario da ogni punto di vista: è razzista, anche se non è solo africano, è antidemocratico, per quante connotazioni si possano imporre alla democrazia, è pessimista e regressivo. Ma è storico.
Il pattern non emerge nelle società complesse, stratificate, a loro modo strutturate, quali l’Egitto o l’Algeria. Regge il Marocco, l’unico paese del Nord Africa con uno standard di vita quasi europeo, per l’integrazione, seppure ridotta, nel sistema globale della produzione, al passo coi tempi, perché la monarchia impone un sentiero europeo: detribalizzato, parlamentare, sindacale, con un forte controllo da parte dello Stato. Nel lungo periodo lo scehma invece si applica da tempo anche nelle repubbliche sudamericane. Non in Argentina o Brasile. Sì in quella, Messico in testa, Perù, Ecuador, e ora Venezuela e Bolivia, dove le élites criolle progressivamente lasciano il governo alle masse indigene. Il Perù ha il record mondiale della crescita continua da una dozzina d’anni, ma gli effetti nel paese non si vedono, la ricchezza vi si dissolve.

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