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venerdì 17 ottobre 2008

Sarà un'altra Europa

D’improvviso, senza un progetto, per contrastare in qualche modo il crollo finanziario, l’Europa ha deciso una politica senza limite di salvataggi. A discrezione dei governi nazionali. Gran Bretagna, Germania e Belgio vi hanno già fatto ampio ricorso, l'Olanda vi si prepara. La Francia non sembra averne bisogno, né la Spagna. L’Italia non ne ha bisogno per le banche, ma la voglia d’intervento è forte, è comune a tutti i partiti, e trova in Berlusconi la massima disponibilità, anzi una sorta di auspicio. È quindi probabile che si faranno degli interventi a favore delle maggiori aziende, dopo Alitalia: la Fiat è la prima nella lista, con tutto il settore meccanico, della componentistica e delle macchine utensili, Telecom, con la rinazionalizzazione a buon prezzo della rete (il vecchio progetto di Prodi), la siderurgia.
La crisi non è finita, e potrà avere ancora sviluppi imprevedibili. “Se dieci banche sono bacate (e lo sono), mille lo saranno, tanti sono gli intrecci interbancari - e salvare tutte le banche del mondo si può solo negli incubi”, scriveva questo sito il 31 gennaio. I viluppi dei mutui americani insoluti e dei derivati accomunano tutte le economie, con l’eccezione di quelle asiatiche, e potrebbero anche contagiare la cosiddetta economia reale. Provocare cioè la recessione che finora è stata evitata, se non la depressione. L’esito finale potrebbe quindi essere distruttivo. Ma, stando le cose come stanno, l’Europa sarà radicalmente diversa.
Le differenze con un mese fa, una settimana fa, saranno enormi. La prima è paradossale. I vecchi gruppi pubblici privatizzati non hanno bisogno dello Stato, sanno stare sul mercato da soli, ad eccezione ovviamente di Alitalia: Eni, Saipem, Rete Gas, Enel, le banche, Finmeccanica, perfino Terna, e StMicroelectronis, più tutte le attività inglobate nei gruppi privati, sono solidi patrimonialmente e redditualmente (fa eccezione Telecom, che però è stata una finta privatizzazione, a beneficio di tre gruppi - finora - di speculatori). L’esito finale sarà uno stravolgimento del mercato. C’è un massiccio trasferimento di capitali dal pubblico al privato, con nuovo debito e probabilmente nuove tasse. Tornerà la stagione dello Stato imprenditore, con le note diseconomie: il controllo politico, le inefficienze, la corruzione nelle tante sue forme. Malgrado i buoni propositi (partecipazione a tempo, senza rappresentanza in consiglio, senza diritti di voto in assemblea), i governi non si libereranno presto delle banche e delle imprese che avranno salvato. Se anche lo volessero, non potrebbero: tutti i criteri di gestione, e la filosofia della gestione, dovranno uniformarsi alla presenza dello Stato, i manager e le imprese dovranno rispondere anzitutto ai governi. L’esito sbilanciato dell’intervento, con alcuni Stati europei grandi padroni e altri no, accentuerà gli squilibri già forti a Bruxelles, dove alcuni contano e altri no. L’unilateralismo del governo tedesco è una novità solo nel senso che si è tolta la maschera.
L’Italia, se dovesse superare la crisi senza interventi pubblici, malgrado l’auspicio di Berlusconi, acquisterà all’apparenza un vantaggio relativo. I suoi gruppi economici continueranno ad agire liberamente sul mercato, con più flessibilità e redditività. Non ci saranno trasferimenti dal pubblico al privato, non crescerà il debito. Ma l’Italia resta pur sempre soggetta alle regole europee, che non saranno più fatte per il mercato. In un quadro globale regolato dalla Wto, chi è più competitivo più lavora. Ma un’Italia ipoteticamente virtuosa si troverebbe sempre a dover partecipare al mercato globale attraverso la gabbia europea. E nel nuovo quadro che si andrà a formare lavorare sulle proprie risorse potrebbe essere un handicap, di fronte ai rinnovati “campioni nazionali". Il mercato europeo conta comunque per il sessanta per cento delle attività italiane all’estero, e non c’è concorrenza possibile con i gruppi sussidiati nazionalmente.

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