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martedì 14 ottobre 2008

Letture

letterautore

Arbasino – Vittorini è andato all’opera la prima volta a ventiquattro anni, e ne scopri le doti a quaranta, scrivendosi la prefazione a “Garofano rosso”. Arbasino all’opera ci è cresciuto, e non riesce ad adattarsi alla realtà. La conosce, l’ha studiata, la pratica, ma non la ama – ha studiato il diritto internazionale e l’ha insegnato, ha fatto il giornalista, ha viaggiato e viaggia, ma ancora oggi ha sugli eventi e le cose uno sguardo meravigliato. Che se aiuta la percezione e l’analisi – Arbasino è pur sempre il miglior social scientist che eserciti in Italia – gliene impedisce la rappresentazione, oggi si dice l’affabulazione.
Ogni evento è per lui una sorpresa. In questo rapporto inverso col reale – quotidiano, epocale – è la sua personalissima cifra, l’instancabile invenzione verbale. E la ridondanza: la meraviglia inesausta. Nel presepe farebbe l’Incantato.

Dante - “Grandissimo reazionario se mai ve ne furono” a dire di Eco. Oggi vede impegnati in severa concorrenza due campioni della sinistra, Sermonti e Benigni. È reazionaria questa sinistra? Anche perché Dante è diventato con Benigni merce da prime time, si “vende” come Sanremo. Dove è peraltro stato, sempre con Benigni, col massimo successo, di pubblico e di spot pubbicità.
Benigni ha semplicemente dato voce a Dante. C’è una riscoperta di Dante in questo senso, l’ha aperta Jacqueline Risset vent’anni fa rendendo in francese il ritmo della “Commedia” e l’invenzione verbale ravvivando oggi come era viva allora. L’invenzione di Benigni è leggere Dante come un poeta, libero dalle ragnatele dell’esegesi. Che non è molto di più della “Licenza liceale”, il racconto di Campanile in “Manuale di conversazione”: “Tu sapevi che le anime dei beati non stanno nei vari cieli, ma stanno vicini a Dio?” Con la risposta: “Sì, scendono con una corda”, che semina il panico tra i maturandi in attesa. E la ripresa: “L’invettiva di san Pietro è nel ventottesimo canto?”.
L’esegesi ha torti e meriti. Ma il suo esito è di oscurare il soggetto. Anzi, di dare i testi per ben morti. Sui testi sacri magari è più dolce della teologia, non si vuole torturatrice, ma sempre è secca: l’interpretazione è creativa, ma per l’interprete.

Gadda – Gli riesce il miracolo di elevarsi sopra il birignao milanese, di Dossi e gli altri innumerevoli del secondo Ottocento, e di Anceschi, Manganelli, Cederna, anche Arbasino purtroppo. Su di essi Gadda si è elevato con sofferto disprezzo.

È finto misantropo, atteggiato. In realtà socialissimo, il letterato italiano con più vaste e variegate frequentazioni: innumerevoli le foto che lo immortalano coi personaggi più diversi, Contini o Calamandrei, e le mogli, andava perfino ai premi letterari, amava la conversazione, invitava e si faceva invitare ai pasti. È stato nei luoghi più diversi, numerosi gli epistolari, infinite le testimonianze – mancano solo una Céleste Albaret e i colleghi ingegneri - è da dubitare che ne avesse, in Vaticano come in Sud America? Il letterato più a suo agio tra i letterati, che per quarant'anni ha frequentato con costanza e quasi esclusivamente, promuovendo le recensioni, partecipando ai premi, e alle beghe dei premi.

Landolfi – Si ricorda in una rara apparizione in tv figura a punto interrogativo, in atto d’irridere lacanotteri e altri invertebrati della psiche, la pelle stretta alle ossa robuste, il passo ferrigno celato nelle taglie di crescenza. Gli abiti contribuiscono, se grandi, al travaglio dello spirito. Col baffetto a v nel mezzo, il baffo errollflynn. Faceva l“avventuriere” in paletot. Irsuto, ricercato, cioè egoista.
Un cavatore, esploratore, della parola. Uno che la ricerca, più che in miniera allo sprofondo o alla caccia grossa, la studia, l’assapora, la trasforma in aria fine d’altopiano. Un posatore. Uno che, avendo in uggia la vita che si è scelta le dà un tocco di romanticheria. Con sapienti fotoritratto, che richiedono pose di minuti ripetute. E passioni inesistenti, qual è quella del gioco, l’antropologia impersonata della dépense, della necessità del superfluo, come Puškin sul quale si modellava, piacere e fantasia, non costruttiva, non necessariamente, e irridere per difendersi. Un dissimulatore, sebbene attraverso sosia trasparenti, e sofferente pure nelle sue maschere.
Si dice del gioco che è pulsione indomabile. Qualcuno l'apparenta al sesso. E, forse involontariamente (per confondere il sesso con l’amore, che in effetti è nostra inestricabile costrizione mentale), ci azzecca: il sesso brucia, quando c’è, ma può non esserci. L’uomo è stato lavoratore di precisione, instancabile, poiché ha lasciato scritte alcune migliaia di pagine limatissime. Faticatore anche, avendo tradotto migliaia di pagine da lingue ostiche. Ma non si rivela, se non indirettamente alla lettura, possedendone le chiavi. Romantico, appassionato, sdolcinato perfino, sulle vecchie pietre, sul tempo perduto, lo ricorda il blagueur Montale, che soffriva della stessa ironica misantropia. Il suo più sincero estimatore ne onorò la morte con la celebre citazione di Blok, tradotto peraltro da Poggioli: “Perché al mondo che mai c’è di meglio\ Del perder gli amici migliori?”.
Fu sedicesimo premio Gabriele D'Annunzio, dopo averne con furia frantumato le radici. È dunque un uomo che è una figura, tutto e solo contorno. Non c’è carne, sotto quella silhouette, ma un vuoto che si trascina articolato. L’andatura di tre quarti lungo i muri, per timore degli spazi, e di ogni altro. Non dissimulano, queste persone. O meglio sì, ma non mistificano: fanno tutt’uno con la dissimulazione, venendo a soffrire, scrittori, la parola scritta. L’avventura è questa. L’ideale inseguendo della Morte, il poeta che di sé dice: “Nacque,\ Fu sempre solo\ Tra tanta gente.\ In molte parole\ Tacque.\ Indi,\ S’accomiatò dal sole”. Che è il modo forse migliore di godersela. Suo ideale era la Muta. Forse una donna, se non la stessa moglie, ma muta diceva, “silenzio”, la musica di Mozart, e il silenzio “armonia di tutte le armonie”. Il vuoto esiste, checché ne pensino i fisici e i politici, il nulla. Si vive ogni giorno con tutti i doveri del decoro, e magari si scrive, che di tutte le occupazioni richiede la volontà più determinata e costante, ma nulla accade. Strana figura, il nulla che accade, ma così è.

Manzoni – Il romanzo è puro Seicento, una costruzione parodistica. Non intenzionale ma al quadrato, considerato l’uso dell’italiano artificioso del pulpito. Il Seicento è nella scelta stessa della parodia, non enunciata, non scelta cioè, programmata, quasi forma naturale. Nel birignao, lingua di testa. Nella costruzione di testa dei personaggi, nessuno dei quali ha materia, neppure accidentale.

Pirandello – Innova da tradizionalista, col gusto forte perfino del folklore (lumìe, tarì, orci, bigonci…)

Scrive delle cose che sa. Ha visto, intravisto, avvertito, ascoltato, fatto, vissuto magari nell’immaginazione ma come fatto, vissuto personale. Uno di grande esperienza, è qui il fascino della sua narrazione, la novità. Non l’invenzione, tanto meno l’astrusità, neppure a suo discarico o a fondo filosofico, ma suoi personali e precisi modi di essere o momenti.
È questo che ne fa la differenza con la letteratura d’invenzione di cui pure il Novecento italiano è prolifico, anche di qualità letteraria, con Pasolini e con Calvino, in quello insistente, retorica, politica, in questo divagante, simulatrice, artificiosa. In Pirandello c’è una realtà: la durezza è il suo indicatore.

Proust – È lo scrittore eponimo della lettura obbligata, come Manzoni a scuola. Vi si deve perciò leggere l’illeggibile, oggetto di infinite esegesi.

È sintatticamente aggrovigliato per mimare i grovigli della memoria oppure rammemora per essersi perduto nella sintassi?
È meraviglioso scrittore di scritture, era la sua specialità.

Il signor P. è stato sempre solo, tutti gli altri erano avevano un titolo.

Se ne ricorda la madeleine nell’infuso perché è l’unico suo scarto. Anche nella trasgressione è di maniera, la Vinteuil, Charlus, Odette non sanno di nulla. Una ragazza innamorata? Una zia memorabile?

Provincialismo – È l’uso di temi locali in una lingua alta, durevole. O di temi cosmopoliti, di chi ha visto il mondo nella sua rande varietà, in una lingua vernacola? È la grande differenza fra il Nord, Toscana compresa, e il Sud: la durevolezza di Verga, Pirandello, Alvaro, Eduardo, lo stesso Tomasi. Non c’è nulla di più provinciale di Montanelli, anche nel giornalismo in comparazione con le corrispondenze di Alvaro.

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