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venerdì 17 luglio 2009

Il giavazzismo che domò Gelmini

Da quasi un anno ormai l'università è ferma perché il ministro Gelmini, vergine di ferro, ha smesso la corazza e si è inginocchiata di fronte alle ingiunzioni del professor Giavazzi. Il professore le intimava di bloccare ogni concorso, per ordinario, associato, ricercatore, e di moralizzare la vita pubblica. Questo di moralizzare gli altri è una fissa del professore, che finora la applicava alla sinistra, mai abbastanza buona per lui, cioè libera e mercantile (anche la crisi, si è avventurato a dire, è dovuta alla mancata liberalizzazione). Insomma, un uomo più di ferro della Gelmini, ed è tutto dire,
Nel diktat del 28 ottobre 2008, che ha fermato la vita universitaria, Giavazzi imponeva alla Gelmini di restaurare le vetero supercommissioni nazionali di valutazione. La cosa sembrò irrituale ai fan del professore, dato che commissioni di dodici membri sono poco liberali. Senza contare che lavorano male, la sola convocazione richiede anni, e per alcuni corsi di studio è impossibile formarle, non ci sono dodici ordinari. Ma si sa come vanno queste cose, basta fermare il tutto, i baroni non chiedono di meglio, la vita resta rtranquilla, e il costo degli ingressi si accresce in misura esponenziale.
Ora il professore spiega alla sua diligente allieva cosa è necesario fare, e questo fuga i dubbi: bisogna liberalizzare le tasse universitarie. Già nel primo diktat, per la verità, il professor Giavazzi, che è vero, non l'ha inventato Fantozzi (a meno che il "Corriere della sera" non ci faccia un costante pesce d'aprile), non oblitarava l'argomento. Facendo leva su un testo Einaudi, casa editrice dell'odiato Berlsuconi, Roberto Perotti, «L'università truccata», "un libro che chiunque si occupa dell'università dovrebbe leggere", spiegava che "tasse uguali per tutti sono un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi". Non avete letto male. Non è neanche sbagliato. Ma poi Giavazzi citava i dati dell'indagine sulle famiglie della Banca d'Italia, secondo cui il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie, e solo l'8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Ellora?
E allora, intima il professore oggi, bisogna solo liberalizzare le tasse. Non nel senso che ognuno paga in base a quello che ha (il parametro reddituale), ma nel senso che ogni università mette le sue tasse, le più qualificate le più alte, e così via. E non è questo sistema piuttosto fascista? No, afferma il professore, perché i non abbienti avranno le borse di studio. Quanti non abbienti, l'1%, il 10%, del totale? No, assicura Giavazzi senza pudore, "in una delle migliori (università americane), il Massachusetts Institute of Technology, la frequenza costa 50.100 dollari l'anno (40.000 euro), ma il 64% degli studenti che frequentano il primo livello di laurea riceve una borsa di studio". Non è un bel progetto?
L'università italiana come il Massachusetts Institute of Technology, non c'è obiezione possibile, mai mettere limiti al meglio. Senza contare che il Mit è anche una banca, e per il giavazzismo questo non guasta, essendo la maggior parte delle borse pagate dai (poveri) governi (del Terzo mondo) di provenienza.

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