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martedì 4 settembre 2012

Piovene, l’unico fascista del ventennio

Si ripubblica infine Piovene, semiclandestino – forse perché si può leggere, qui, in forma di giallo, il colore dominante. Scritto prima di “Lettere a una novizia”, nel 1939, questo romanzo fu un bestseller nell’anno difficile di pubblicazione, 1944. Erano già tempi duri, politicamente prima che materialmente, e Piovene sentì il bisogno di spiegare entrambi i romanzi, con una premessa “filosofica”. Alle “Lettere” premise “quasi una santa malafede” “in contrapposizione “alla religione moderna della chiarezza nell’esaminare noi stessi”. Non una morale del’ambiguità. Peggio. Di una sorta di opportunismo. Non scadente, Croce vi fu subito molto interessato
Di formazione filosofica, alla scuola a Milano di Eugenio Colorni, Piovene aveva abbandonato la filosofia dopo la laurea, avendo scoperto che non la ricerca della verità stimolava i suoi “furori dialettici” ma le sue “richieste private” – non ci sono molti studi su Piovene, conviene rifarsi alle sue, esigue, poetiche. Non in realtà per opportunismo ma per un bisogno di completezza, di épanouissement: “Ogni sforzo morale mi è sempre parso ripugnante, se mi conduce a rinunciare a una parte di quello che sento per mio”. Per un obbligo esistenziale, “il dovere di ognuno di condurre integra a buon fine tutta la materia vitale che la natura gli ha fornito”.
Non una morale della resistenza, seppure di “una pietà guardinga”. Che, Piovene lo sa, minaccia perdizione: il gioco delle “condiscendenze pietose” può portare a mali passi. Ma in lui è irrinunciabile, perché ineliminabile: non una strategia di felicità ma un rimedio, un argine a un maggior danno, mirato “ad assorbire un necessario alimento d’angoscia” – “debolezza, pigrizia e rassegnazione”. Diceva un “grande scrittore morale” (ma è La Rochefoucauld) che “le virtù sono vizi dissimulati”, e senza il cinismo che la massima sottintende Piovene la fa sua: è così che qui l’impulso a uccidere diventa “un sentimento acuto e quasi ossessivo della vita altrui”. Ma il pessimismo è radicale: “Al modo stesso che la vita morale può servirsi solo del male, l’arte non può raccontare che il male, perché esso solo, per così dire, ha materia, pervade i nostri appetiti e i nostri pensieri…. Il bene, che tutto trasforma, è una potenza senza corpo”.
Autore di quattro romanzi antifreudiani, con i tardi “Le Furie” e “Le stelle fredde”, forse per questo Piovene è negletto. O forse perché non si è iscritto al Pci, neppure come compagno di strada, unico ex fascista, e per questo ha avuto le stigmate incancellabili. Anche a opera di ex camerati robusti opportunisti quali Montanelli – che Piovene aveva aiutato a fondare il suo giornale, “Il giornale nuovo”. Praticamente il solo scrittore italiano degli anni Trenta che sia stato fascista. Ma non resta molto altro del Novecento – è il solo anche ad avere fatto autocoscienza e autocritica, nel lungo saggio “La coda di paglia”, del volumone postumo dallo stesso titolo.
Guido Piovene, La gazzetta nera, Mauro Pagliai Editore, pp. 231 € 12

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