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venerdì 9 novembre 2012

Letture - 116

letterautore


Best-seller – Venerdì 2 “La Stampa” intervista, tra il serio e il faceto, un personaggio di Asti, il professor Carlo Faletti, primario ospedaliero e presidente della biblioteca Astense, sulla fusione provinciale Asti-Alessandria. Il professore si presta al gioco: “Io mandrogno?” dice dell’epiteto che insegue gli abitanti di Alessandria, “Mai!”. Ma il giornale sbaglia foto e didascalia, mettendoci Giorgio Faletti, “autore di bestseller, attore comico, cantautore”. Il giorno dopo si scusa, e per rimediare intervista Faletti scrittore. Che è anche lui di Asti ma non si vergogna di diventare “mandrogno”. Quello che conta nel futuro, dice, è che la nuova provincia potrà annoverare due capolavori: “Alessandria è la terra di Umberto Eco. Lui è autore di un grande bestseller del secolo scorso come «Il nome della rosa», io di un altro bestseller di questo secolo, «Io uccido» (quattro milioni di copie)”. Non da comico, sul serio. 

Dandy – Ritorna curiosamente con Alessandro Piperno. Le cui Grandi Leggi proustiane, da francesista e da scrittore, sono la demolizione dell’amore romantico (ma allora Proust è un parodista?). Curiosamente perché Piperno fa il professore, veste trascurato (almeno nelle fotografie), e si capisce qui e là legato alla famiglia. Mentre il proprio del dandy è di trarsi fuori, dalle passioni, e per primo dall’amore, il dandy è anzitutto un igienista. Ma scrive da dandy: cioè, senza disprezzo, chiamandosi fuori. Per il rifiuto radicale generale. Giustificandosi, come Baudelaire, il dandy archetipo, il più romantico di tutti,  giustificando la curiosità di autore e critico come un doping indotto, dalla moda (attualità), la pedagogia sociale, la tradizione.

Dandy è  anche una delle forme possibili di stare in una realtà modesta – come quella di Baudelaire prima e dopo il brevissimo ’48. Di limitare i danni.

Follia – C’è molta letteratura (romanzi, poesie) sui folli, e molta letteratura ultimamente (romanzi, poesie) di folli, R. Walser, Wolfson, Merini. “Le Magazine Littéraire” di ottobre, la rivista e il sito, elencano varie pubblicazioni a Parigi in questa nuova stagione con tema la pazzia. Ma non c’è uno studio sul rapporto, che sicuramente esiste, tra la schizofrenia e la parola. La parola “esatta”. C’è uno studio di Jaspers, filosofo della psicologia, su “Genio e follia”, ma quasi biografico, su Van Gogh e Hölderlin. Uno studio linguistico sarebbe sicuramente più illuminante, su A. Merini, su “Incom” (Saro Napoli): sulla parola più che sulla follia, sugli stati psicotici che esprimono la parola – la parola “giusta”.

Pierre-François Lacenaire, giornalista e poeta, fu rivoluzionario nel 1830, ghigliottinato nel 1836, per avere assassinato, tra gli altri, una vecchietta e il suo figlio omosessuale. Un poeta assassino, che si voleva anche lui “oratore del genere umano”, come i migliori spiriti dell’Ottantanove.  Ma folle, anche se il giudice gli rifiutò la qualifica. Uno che si diceva vittima dell’umanità e andava in giro facendosi “giustizia”. E tuttavia scriveva corretto, prima e dopo la condanna.

Pascoli - Lamentava “più intenditori, nel mondo, del mio latino che in Italia del mio italiano”. Perché voleva una “lingua viva”, dopo aver sancito che “la lingua della poesia è sempre una lingua morta”. In particolare in Leopardi, il meno aulico dei poeti italiani, rilevava che usa in poesia solo parole auliche. Ma di suo, per abbassare “il tono aulico della lingua poetica italiana” (Schiaffini), ha prodotto una lingua irta, di dialettismi, forestierismi, tecnicismi, ucronismi, parole rare o desuete. Si dice un poeta delle cose semplici, ma è un poeta filologo – poetava, oltre che in latino, anche in greco, francese, inglese. Il suo dialetto, peraltro, non è quello del verismo, né della coeva letteratura sociale d’ambiente,  della strada e delle “vittime”, secondo i propri modi, regionali, sociali, ma di una domesticità quasi chiusa, volutamente.
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Premi – Tutti gli scrittori, compresi gli esordienti e i giovanissimi, vantano tre o quattro premi all’attivo a ogni opera che pubblicano. Premi anche locali, sconosciuti, di nessun pregio. Ma indicano che lo scrittore fa parte di un gruppo, una cordata, una scuola – la maggior parte di questi premi, un tempo opera delle pro loco, sono ora messi su dalle scuole di scrittura. La letteratura come business, il marketing è il punto focale.

Vino – Si beve vino con Sherlock Holmes, quando non è whisky. Non birra. Una geografia letteraria del vino e della birra riserverebbe sorprese. L’Europa che non trova radici ne avrebbe due consolidate, per mentalità e linguaggi, l’area del vino e quella della birra.

Nella vecchia Repubblica Federale, prima della riunificazione, il vino era, se non prevalente (Adenauer probabilmente era astemio), condizionante, insieme con l’area renana, nella geografia complessiva. E ne ha caratterizzato la politica, in senso europeo, possibilista, non prevenuto, non da sensi di superiorità.
Era così la vecchia Germania che nasceva con Carlo Magno, “renana”: la vite prevaleva, il vino che accende la lettura. Lasciva est nobis pagina, vita proba”, canta Ausonio, il poeta di Bordeaux che poetò la Mosella. La Mosella è la Germania più romanizzata, col Sud Tirolo ora italiano: da sempre terre del vino. Vandelberto, abate di Prün, sempre area del vino, versificò il calendario, come Francis Jammes. Si passano le frontiere ignari: prima degli Stati la vite univa Francia e Germania.

Si fa poesia col vino, si filosofa con la birra?

Anche la Colpa si può legare alla birra, la colpa della Germania: il vino si sa che segue il temperamento senza cambiarlo, s’intende nelle ciucche, gli scarti di umore vengono dalla birra.  

Voce – Ha una forte capacità connotativa. Nel “Padrino”, se ascoltato in lingua originale, Coppola caratterizza i personaggi anche con le voci. Specie quando parlano italiano, i loro specifici dialetti.  Le sonorità e le diverse cadenze dialettali hanno un effetto immediato di rappresentazione: l’italo-americano dei diversi ceti sociali, e i dialetti dei vari paesi d’origine. Soprattutto nel “Padrino II”, quando il giovane don Vito (De Niro) torna a Palermo per vendicare i genitori: il barbiere di Gioia Tauro, garrulo, puntuto, inerme, il contorto, taciturno, violentissimo, palermitano.

È rivelatrice. La cadenza milanese, per esempio, è castigliana, curiale – la Spagna a Milano è irrisa e cancellata dopo Manzoni, ma ha improntato la parlata. Ascoltando due voci, specie femminili, senza distinguere le parole, si ha la sensazione che possano essere sia madrilene sia milanesi. È un caso, Milano, del “traudire” di Praz, della “stanza accanto” di Vernon Lee, quando in casa, in strada, un suono fluisce, un violino, il canto, un piano, senza una figura o uno strumento, alcunché di materiale, in vista, solo la melodia.

letterautore@antiit.eu


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