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lunedì 5 novembre 2012

Tutto quello che sapevamo su Bronte

Bronte fu a lungo nome d’importanza in Gran Bretagna. Patrick Brunty, studente a Cambridge, modificò il nome in Bronte, che le figlie letterate  Emily, Charlotte e Anne renderanno famoso con la dieresi. Era uno dei ricaschi della nelsonmnia a cavaliere del 1800. Nel nome di Bronte furono battezzate varie località in Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giamaica, Trinidad, e in Texas. Celebrata nel mondo anglosassone per essere il titolo ducale, conferito da Ferdinando IV di Napoli all’ammiraglio Nelson nel 1799, assortito di 16 mila ettari, compresa la cima del’Etna, per i meriti della guerra antinapoleonica – per la storiografia italiana in quanto traditore dei rivoluzionari napoletani, ai quali aveva assicurato l’incolumità. Un regalo che inaugurava un protettorato di fatto britannico sull’isola per vent’anni, fino a che l’Italia, Sicilia compresa, non fu assegnata dai vincitori di Napoleone all’Austria.
Lucy Riall ha scoperto Bronte ultimamente, e ci ha scritto sopra trecento inutili pagine. Se non per la contabilità e la corrispondenza, di nessun interesse, degli eredi dell’ammiraglio. Ci sono buoni spunti nel libro, ma si lasciano cadere. Il più succoso è il “rischio” che la Sicilia corse di diventare un possedimento britannico. Per la flotta, e per il monopolio delle esportazioni dell’isola, zolfo, sali, agrumi, vino (il Marsala veniva commerciato dagli inglesi già nel Settecento, come Madera di Bronte) – che è durato fino a questo dopoguerra, si può aggiungere, ed è stato l’unica valvola di sviluppo non sovvenzionato della Sicilia. Col nodo irrisolto: la Sicilia come uno dei luoghi “in cui la politica liberale della Gran Bretagna in Europa si incontrava con il ruolo imperiale”. Un altro spunto è quello delle plebi meridionali, che a Palermo erano come a Napoli lazzaronesche, ma in piccola misura, soprattutto erano contadini senza terra. Fino ai primi del Novecento, anzi fino al fascismo, malgrado una serie infinita di rivendicazioni e di lotte, e la costituzione dei Fasci, la prima organizzazione socialista in Italia.
Il resto è noto. Da tempo Bronte non ha più il crisma dell’“antistoria” d’Italia che al nome impresse Verga nel 1883, con la virulenta novella che intitolò “Libertà”. La rivolta del 1860 fu bestiale come si dice. Fu anzi una vendetta, contro una famiglia, quella del notaio, non specialmente indiziata di colpe gravi. La repressione di Bixio fu meno bestiale di quanto si dice, fu limitata anzi e ragionata. Col solo possibile errore dell’inclusione, tra i cinque giustiziati, dell’avvocato Niccolò Lombardo. Che però aveva aizzato alla rivolta – il nome è ferale a Bronte: per il centocinquantenario Raffaele Lombardo escluse la città dalle celebrazioni, non per colpa o demeriti ma  per ripicca, il presidente della Regione essendo in lite col suo compagno di partito sindaco di Bronte.
La contabilità e la corrispondenza della ducea sono un secolo e mezzo di cause interminabili. Una è durata, sembra di capire, settant’anni. Di che montarci, forse, una farsa: la giustizia in Sicilia. La storica si stimola con fonti dell’attualità: Pino Aprile, Sergio Rizzo, perfino “Ulisse”, la rivistina duty free dell’Alitalia. In armonia con la nuova euristica, realytesca, della casa editrice. Anche Craxi ci mette di mezzo. Ma non dice niente più di quello che sapevamo. “Sia i miti sia la storia di Bronte hanno molto da dirci sulla Sicilia e sul mondo esterno”, è la sua conclusione e resta un buon programma.
Un singolare passo alla p. 205 espone i rischi della storiografia, quando si tratti della Sicilia. Lucy Riall, studiosa emerita dei democratici a Palermo, è stata presa a testimone l’anno scorso da Salvatore Lupo, nella ricostruzione de “L’unificazione italiana”, sull’uso della criminalità da parte del governo di Torino contro appunto i democratici. Lupo ricostruisce una serie di intimidazioni mafiose, compresi accoltellamenti (i “pugnalatori” di Sciascia) e lupare, contro gli esponenti democratici tra i moti del 1862 e quelli del 1866. Era lo Stato-Mafia. Ma qui Lucy Riall dice lesta che mafiosi erano i democratici. E chiama a testimone Lupo… Gli ultimi fatti certi risalgono a Verre e a Cicerone, quando si tratta di Sicilia.
Il vassallaggio è finito nel 1969, dopo vari tentativi sterili di ammodernamento della ducea. La retorica del vassallaggio è finita con la vendita delle terre a chi le coltivava, e del castello di Maniace alla Regione Sicilia, da parte dell’ultimo discendente di Nelson, “il più siciliano di tutti i duchi di Bronte”. Che coi proventi fa il banchiere d’affari in Svizzera e nell’isola non è più tornato, nemmeno in gita.
Lucy Riall, La rivolta. Bronte 1860, Laterza, pp. 354 € 20

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