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lunedì 2 aprile 2012

Letture - 92

letterautore

Digest – “Robusti scorci” di “Macbeth”, “Re Lear”, “Promessi Sposi”, “Delitto e castigo” invoca Citati (“Corriere della sera” 30 marzo) a beneficio dei 14-15enni. Che “sono molto più intelligenti di quanto immaginiamo, e comprendono cose che ci restano incomprensibili”. Ma vogliono anche “una saggia gradazione... una lenta preparazione della mente e della lingua”.
Il digest è formula apparentemente insensata. Anche se in grande uso in America, la riduzione dei capolavori della letteratura e dei best-seller in digest form, in trenta-cinquanta pagine. Con una rivista mensile, il “Reader’s Digest”, che è stato per buona parte del Novecento e oltre il più grande successo mondiale, con un record di vendite negli Usa nel 2004 di 12 milioni e mezzo di copie, quasi tutte per abbonamento. Una rivista mensile pubblicata in 78 paesi in ventuno lingue diverse, in tutti i continenti (in italiano ha cessato le pubblicazioni nel 2007). È una forma di scrittura breve. Non una sintesi-riassunto – che per un libro di Poirot o Miss Marple si potrebbe fare in una riga. Né un estratto, un assaggio dello stile dell’autore. È un rifacimento, più rapido - il remake, arte tipicamente americana (anche per appropriarsi i diritti d’autore: una forma di produzione su licenza).
Eco, in “Non sperate di sbarazzarvi dei libri”, p. 53, dà in anticipo ragione a Citati. Ricordando della sua infanzia, anni 1930, la Scala d’Oro, che riadattava i capolavori per i ragazzi dai 7 ai 14 anni, per classi biennali di età. Che, a suo dire, non mancavano di nulla delle edizioni integrali che da adulto gli avvenne di rileggere. Il suo interlocutore nel libro-intervista, Jean-Claude Charrière, non rileva nemmeno che in Francia l’abregé è ancora in uso, per le famiglie e le scuole, la famosa Bibliothèque verte, che adatta i capolavori ai ragazzi – e del resto s’era detto disgustato dei digest.

U.Eco – Dai trattati di scolastica e semiotica alla bustina di Minerva. Per la brevità che s’impone via via nel secondo Novecento – fino a twitter e l’sms. Ma anche per adattarsi via via ai formati dell’“Espresso”, che un tempo faceva articoli di dieci pagine, poi di tre, poi di una, e le rubriche di tre cartelle ha ridotto a due, e a una. È il formato che induce il pensiero – lo comprime?
Anche la facondia Eco adatta, grande narratore. Era di centinaia di pagine per aneddoto nel “Nome della rosa”, nel “Pendolo di Foucault”. Compendia ora la narrazione in poche frasi, poche righe.

Fellini – Si rivede “La dolce vita come si rilegge “Guerra e pace”: per solidità, vastità, varietà, fino alla lutulenza. La certezza dell’incertezza, che anima la passione.

Femminismo – Ovidio pretendeva di sapere tutto delle donne, ma Aristofane aveva già capito tutto. E dunque, fa una battaglia – il femminismo – contro un fronte aperto?

Melodramma – È la musica. E nella musica la voce, il canto. Si capisce a un’esecuzione operistica in forma di concerto, senza costumi ne scene: il melodramma resta intatto, anzi più sonoro (drammatico) potendo i cantanti emettere in pieno la voce.
Si capisce che alle origini e ancora per tutto il Settecento i primi cantanti pretendessero di portarsi dietro delle arie di baule, di sicuro successo. La trama è secondaria – i “temi” sono musicali.

Rimbaud – Era un Leopardi, solo più bello e “liberato”, un eguale mostro di cultura. È prototipo del poeta selvaggio, ma a sedici anni componeva versi latini. Poi svanito nel nulla,

Romanzo – Nasce come genere nel Settecento, in Inghilterra, per le donne: vedove, nubili, mogli di mariti spesso in viaggio (marinai, mercanti, militari). E per le loro cameriere, che in casa avevano il beneficio anch’esse delle candele, la notte, dopo il lavoro. Nasce così “borghese”, si suole dire. O non femminile? O popolare? Con molte pagine perché gli inverni erano lunghi.

Sinistra-Destra - Jünger nei primi anni 1920 anni scriveva per i nazionalisti “Standarte” e “Vormarsch”, stendardo, avanzata, e per “Widerstand, la resistenza. Werner Lass, condirettore di Jünger a “Vormarsch”, ex Freikorp, sarà del resto comunista. Per il fascino del totalitarismo, dell’efficienza, della “produttività politica”. Ciò si vede in letterati anche politicamente colti, come Aragon e il suo grande amico di gioventù, poi passato a destra, Drieu La Rochelle. L’efficacia come segno della buona politica, più che i partiti e la democrazia, col loro inevitabile carico di corruzione. È questo il segno di Ernst von Salomon e tutta la rivoluzione conservatrice tedesca, da Jünger a Carl Schmitt, Thomas Mann compreso. Con echi in Italia in Delio Cantimori.
È un’idea a cui soccombettero molti intellettuali onesti ma impreparati, tra essi i più noti e indifesi Céline e Pound. Di Céline il “Nouvel Observateur”, il settimanale progressista francese, ha potuto fare quattro anni fa il precursore delle 35 ore lavorative. Per ridere ma non troppo: nel mezzo delle invettive antitedesche e antisemite degli anni di guerra, Céline proprio questo proponeva nel 1941 nei “Beaux Draps”, uno dei libelli oggi impubblicabili. E nel 1944 chiedeva pubblicamente – ai giornali collaborazionisti! – “un vero Socialismo”, anzi “un vero Comunismo”.
Anche Chesterston, che certo non fu un violento come Céline, negli anni 1920 voleva la fine del capitalismo, spiega sempre il “Nouvel Observateur”, sempre quattro anni fa. Di cui ricorda l’“Arringa per una proprietà anticapitalista” nel 1926. Contro il totalitarismo sovietico come contro le concentrazioni industriali e finanziarie, che soppiantano il piccolo commercio e e la piccola proprietà contadina. Come contro Bernard Shaw e i Fabiani, vicini ai socialisti. Chesterston propone il “distributismo”: proprietà di dimensioni più o meno uguali per i coltivatori, e gruppi di consumatori uniti contro il dominio della grande distribuzione. Con “una presenza”, comenta il settimanale, “una forza, una urgenza anche, che sono quelle di tutte le opere quando sono dell’ottima letteratura”.

Le masse entrano nella storia da sinistra, con la Rivoluzione tagliateste. E col conte di Saint-Simon, Comte e Thierry, che ne volevano scacciare la libertà di giudizio. Mentre quelli della rivoluzione nobile arricciavano il naso: il barone Evola, col fascismo “visto da destra”, Schmitt, Jünger, Bataille, che fu pure comunista, Caillois, Montherlant, Malraux, lo stesso delatore Aragon. Stando saldi nell’arca della tradizione e del ripasso, con Thomas Mann, Benn, Drieu o Yourcenar. È fine uomo di affari e di Stato l’Adriano imperatore che volle la Giudea devastata - i romani, che non distruggevano nulla, fecero eccezione per le semite Cartagine e Gerusalemme: potrebbero aver saputo da qualche segreto di Fatima che i semiti ne tramavano la fine.
Altra pasta Céline, Hamsun, Pound: democraticismo plebeo, integrale, senza eroismi né inni alla morte. O Pirandello, che irride e corrode, fascista volontario: “La massa non ha una propria volontà”. O lo storico De Felice, che il Sessantotto disse nazista, uno che veniva dal Pci. È che la destra non è alfiera di morte, non tutta: è fatta di vitalisti che se la spassano, inclusi Evola e Heidegger, e questo è il nodo, o enigma, dell’essere di destra, dell’esserlo stati. Erano contro i guasti dell’idealismo pratico, della bontà, di sentimenti e intenzioni – nella trappola dell’efficientismo. Céline fu presto antibellicista e medico dei poveri. Divenne rognoso e antisemita per crederci, da resistente alle sopraffazioni, nel tempo in cui un tremendo potere, a lui non oscuro, bruciava vive la pietà e la legge.

letterautore@antiiteu

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