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giovedì 5 aprile 2012

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (123)

Giuseppe Leuzzi

La Procura della Repubblica di Reggio Calabria che abbatte Bossi e la Lega non è male.

La scoperta della Sardegna
Sul giornale online “Rosebud” che Rina Brundu anima, il professor Massimo Pittau riproduce una poesiola di Grazia Deledda ventiduenne agli esordi, di cui un libraio vende l’autografo.
http://rinabrundu.com/2012/04/01/america-e-sardigna-una-inedita-poesia-sarda-di-grazia-deledda/
Il componimento non piace a Pittau, ma ha una sua forte, anche molto forte, grazia: fare la scoperta della Sardegna, nientemeno, che pure ha una lingua “romana”. Lo stesso Pittau ricorda l’impegno della giovanissima Grazia per il riscatto della sua terra, sia nei primi contatti editoriali che nei primi esercizi. Ma, dice, le rime zoppicano e l’assunto è velleitario: bisognava riscattare la Sardegna dal banditismo. E perché bisognava riscattare la Sardegna? Il banditismo era in Sardegna, ma non era “sardo”. Non esiste, direbbe Kant se parlasse romano – romanesco.

Pentiti
Il Procuratore Capo di Firenze, chiudendo le indagini per l’attentato in via dei Georgofili, dice che “le gravi affermazioni” di Spatuzza sui rapporti con la mafia di Dell’Utri e Berlusconi “non hanno ricevuto una verifica giudiziaria neppure simbolica”. Ma non processa Spatuzza per calunnia, come sarebbe suo dovere.
Spatuzza resta anzi un pentito accreditato, al quale paghiamo protezione e pensione. Serviva a fare scrivere molte pagine su Berlusconi che ordina l’attentato, e quindi il suo compito lo ha assolto.

Dante Troisi, “Diario di un giudice”, la narrazione in forma di autocoscienza che nel 1955 gli valse un processo dell’autorità giudiziaria e una censura in quanto magistrato, attribuisce a un certo punto al protagonista-narratore un incongruo bisogno di far abortire la moglie, per concludere: “Ho bisogno di commettere un reato, per acquistare sfrontatezza, coraggio di vivere e giudicare gli altri”. Si può fare il giudice, continua, per l’incoscienza dell’abitudine, “o per ripararsi o nascondere un reato”. E commenta: “Dopo, mi pentirò; perché sempre devo sentirmi pentito”.
È in questa piega della mente giudicante la consonanza che, tra i tanti soggetti del processo, gli imputati, gli inquirenti, i testimoni, la magistratura, inquirente e giudicante, ha con i pentiti, di mafia come già di terrorismo?
Troisi continua con un risvolto personale: “Ritenevo bastasse tutta la vita la colpa d’aver desiderato la guerra ed esserci andato” (volontario in Libia, n.d.r.), ma non è sufficiente. Per concludere che il complesso di colpa va rinnovato: “Proibito tenersi la medesima colpa, si consuma e va cambiata”.

C‘è luce a Sud
Pazzi, lettori di libri,\ andate al Sud & vivete\ là. È \ tutto ciò che ho\ da dire stavolta,\ alla fin fine,\ che la vita,\ nonostante tutti\ i suoi dannati\ imbrogli & intrighi\ vale la candela,\ andate a sud e vivete là\ giorni notti &\ quel che resta, nel\ corpo e nello spirito”. Nell’estate del 1912 Pound decideva di esplorare a piedi il Sud della Francia, la terra dei trovatori, della prima poesia occidentale, che è la sua. Non scopre il “Sud”, aveva già vissuto a Venezia e Sirmione, ma lo certifica.
Il Sud è per Pound la libertà di essere. Così continua il frammento di “A walking tour in Southern France”, una pubblicazione postuma del 1992, collazionata sui suoi taccuini di viaggio: “Cuillez! Carpe\ e quel che resta,\ raris, il giorno, &\ il colore, &\ il suono,\ l’ora, o qualsiasi cosa\ sia più stretta\ al vostro cuore-\ o al vostro desìo!\ Ma non siate \ parchi né\ mediocri nel\ desiderare”.
Un’idea non infrequente, e anzi comune ai molti viaggiatori e émigrés anglo-tedeschi dell’Ottocento e del primo Novecento, con l’illustre colonia caprese e nuclei sparsi in Sicilia: la “libertà” di essere, di desiderare, di vivere. Che sembra in contrasto col “ritardo” del Sud nell’Ottocento, il ritardo, il classicismo vuoto, retorico, e la chiusura. E in questo lungo dopoguerra la vuotaggine piccolo borghese dell’adattamento, dell’assimilazione perbenista, consumista, conformista. Ma sopravvissuta nelle cose: il linguaggio sotto la lingua di pezza, i modi di pensare e di essere E l’elemento naturale, certo: la luce, la flora, gli spazi. I monumenti anche, il passato vive, seppure vilipeso.

È la debolezza del Sud, il ritardo culturale. Non sulla modernità, cui anzi il meridionale è più disposto, in quanto provinciale e sradicato, è l’assenza o il rifiuto della propria storia o specificità. Che è l’esito del Risorgimento, rieccolo, dell’unità intesa come annessione, cui il meridionale fu prono proprio per l’entusiasmo della contemporaneità. La ricchezza è nel Salento e in Calabria la Grecia bizantina, ma loro non lo sanno, e copiano Lodi. Né sanno di essere stati arabi, per quasi un secolo. Per non dire della Sicilia, dove il tarì arabo era in uso con Pirandello, ma non si deve sapere. Il tarì che poi è tarion, era bizantino.

Per fare cultura ci vuole una lingua “nota” e un ambiente culturale. Non è un caso dell’uovo prima o della gallina – o sì? Umberto Eco (“Non pensate di liberarvi dei libri”) ricorda l’aforisma di Marchesi: non si può essere un Grande Poeta Bulgaro. Se la lingua non è nota cioè, compartecipata, studiata, tradotta. Se il paese (ambiente) non è propizio all’arte: disponibile, esercitato. Anche perché Grande Libro è quello letto e interpretato: “È il “Talmud” che ha prodotto la “Bibbia””.

leuzzi@antiit.eu

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