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sabato 6 luglio 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (175)

Giuseppe Leuzzi

Autobio
Antonio ha appena aperto il rifugio in montagna. Per arrotondare fa quello che il Parco non fa, una giornata di svago didattica per i ragazzi delle medie. Ha montato un affascinante “percorso” di slides, e un percorso naturalistico semplice, breve, per i giorni di bel tempo. Chiede un fee modestissimo per ragazzo, per evitare esclusioni, di famiglie che non possono pagare. Ma i ragazzi “avevano ognuno il suo telefonino appeso davanti”. Era il 2001.
Per portare su i ragazzi era stato deciso che le famiglie se ne sarebbero occupate. C’è stato un intasamento: ogni famiglia ha portato il suo, ed è venuta a riprenderselo.

Dei compagni alle elementari, una trentina abbondante, solo cinque sono rimasti al paese, e due delle quattro ragazze. La classe è il 1941, rimpolpata di qualche ripetente o ritardatario. Dei nutriti collaterali per parte paterna, quarantinque primi cugini, più quattordici zii, solo nove sono rimasti in paese, compresi i genitori, nove su cinquantacinque.
Questo è un bene e un male: l’emigrazione rappresenta una cesura. Dai racconti di chi è stato a trovare i fratelli, le sorelle, i cugini, negli Stati Uniti, in Australia, in Canada, non emergono mai novità adattate al proprio ordinario, alla propria vita di ogni giorno. Benché tra gli emigrati le storie di successo abbondino. Almeno tre imprese edili di primaria importanza sono state create da compaesani emigrati in Hamilton, Ontario, Canada, dove si contano più di un centinaio di famiglie del paese. Portate al successo dagli stessi emigrati, prima e meglio che dai loro figli. Ottime posizioni, nell’edilizia e nella lavorazione del maiale (prosciutti, insaccati), anche a Perth, Australia, dove un’altra colonia si è creata di dimensioni analoghe. E a Melbourne, la metropoli australiana, dove il circolo dei compaesani organizza periodiche feste con oltre cinquecento convitati di qualità. Lo stesso gli emigrati: nessuno ritorna. C’è la memoria, c’è magari il vanto delle origini, ma la visita è sempre breve, spaziata, ogni dieci anni o più, e alla fine spazientita. Alfredo Strano, che in Australia è diventato scrittore bilingue, e caso di studio all’università, si è trovato a un occasionale ritorno più spaesato di prima.

Il giovane D.F. viene per un consiglio, dovendo scegliere l’università. Viene con la mamma. La quale è stata mandata dalla zia.
M.F. farà poi tutto il contrario di quanto detto.
La mamma si trasferirà con lui in città tutto il tempo degli studi.

Dalla zappa, che piegava in due, siamo passati all’indolenza. Che c’era ma era borghese, da figlio di mamma - le mamme più di oggi erano determinanti. Del secondo o terzogenito maschio avviato agli studi per non dividere la proprietà, avvocati o medici che non avendo concluso gli studi passavano il resto della vita tra i cento passi al circolo, per le chiacchiere prima di pranzo e di cena, e lunghe dormite. Accuditi talvolta da sorelle nubili altrettanto risentite, e tuttavia restie ad affrontare una vita propria di fatiche, tra figli, case e marito. Ora è il sogno dei molti, c’è il “bamboccione” anche qui. Il notabile con l’unghia lunga del mignolo, falso laureato, vero nullafacente, è sostituito dalla rotondità dell’adolescente eterno. Entro l’albagia dei diritti cui il sottogoverno confina i più – la politica del posto, la pensione o il sussidio, a carico dei pochi che lavorano. Rotondo anche nell’epa, nell’attesa dell’impiego cui si sa incapace – è il vitellone due generazioni dopo, o tre: è questo il ritardo. Tra quelli che restano, e non fanno i pendolari. Che non sono più i pochi, segnati a dito. Anche per questo quelli che se ne vanno non sanno tornare, troppa indolenza: incertezza, superficialità, approssimazione.

Alla fatica e alla strafottenza è subentrato diffuso l’oblomovismo: lamentarsi di tutto, estranei e anzi renitenti all’azione. La reattività c’è sempre dominante, istantanea, violenta. La collera breve, che può essere assassina tanto è incontrollata. Ma non la prestazione costante, progettuale, applicata. C’è se essa risponde al “colpo di genio”, l’agnizione di un destino in un momento di astri favorevoli, di ritmi ascendenti, di ciclotimia. Ma anche in questi casi più spesso l’applicazione è breve: l’entusiasmo non è mai stato il nostro forte, piuttosto il senso critico. Si direbbe una civiltà femminile, magno greca? locrese?, non fosse di uomini robusti e pelosi. Ma indecisi, ecco.

Calabria
Vittorio Sgarbi è e stato deputato per una legislatura in una circoscrizione in provincia di Reggio Calabria. Tanto è bastato per ridisegnare alcuni paesi, partendo dalla pavimentazione stradale e dal colore delle case, Gerace, Serra San Bruno, Mileto, Ardore. Che hanno trovato una nuova identità e la mantengono.

I paesi della periferia nord di Reggio Calabria, Archi, Catona, Gallico, Campo Calabro, erano agrumeti profumati di specialità apprezzate, quale l’ovale calabrese, succoso e fresco a giugno. Ora i giardini sono di riporto, di costruzioni interminate, polverose, sporche.
Erano anche il solo luogo in Europa dove maturava la frutta tropicale. Qualche albero ancora resiste di chirimoya, un frutto che, importato dal Perù, si vende a cinque euro l’unità.

Dopo la conquista araba della Sicilia, alla fine del nono secolo, lellenismo trova rifugio in Calabria, “per lo più tra le montagne” – “Calabria bizantina, p. 104.

“Mille Calabrie” trovava l’abate scrittore Vincenzo Padula, tornando alla sua Cosenza e alle vicinanze, prima e dopo l’unità, ma più nei tre anni in cui pubblicò “Il Bruzio”, il suo giornale. Era preciso l’abate, che Carlo Muscetta ha riscoperto e pubblicato nel 1950, “Persone di Calabria”, aveva indagato su clima, storia, feste, costumi, lingua, prima di concludere che “ogni città è nazione”, un piccolo mondo che era – è - “un vero mosaico, un abito di Arlecchino.

La malinconia, anzi la “melanconia”, Lombroso vi elesse a tratto caratteriale distintivo. Questo il suo calabrese “tipo”: “La statura è media, il temperamento bilioso; L’animo fiero, iracondo, testardo, impavido, desideroso di dominio, fino alla prepotenza, amante della lotta, dei piaceri, ma pieno d’intelligenza, di vita, e di un senso estetico delicatissimo che si rivela nei proverbi e nelle canzoni dell’antica Grecia”.

Ma non era tenero, il misuratore di crani umanitario: “I Calabresi di temperamento bilioso, come sono i più, vanno soggetti alle emorroidi, all’itterizia, alle epatiti, ai calcoli biliari e alle ostruzioni viscerali, che finiscono poi con gli edemi e con le idropi”.

La storia del Museo
“Sono calabresi quelli che hanno distrutto rovine greche e romane a Reggio, fra cui la fontana monumentale lunga cento metri e alta sei sul lungomare, e chiese bizantine e tempietti greci fatti saltare con la dinamite per farci una passeggiata sopra la ferrovia. Dei bronzi di Riace, per cui Reggio sembrò pronta alla rivolta,da cui partì per i suoi sogni di rinascenza turistica e commerciale, non si occupa più nessuno. Nel Museo hanno assunto come custodi e guide degli analfabeti che rispondono alle domande con grugniti. Non sanno niente di ciò che custodiscono, come se fosse un capriccio del Municipio conservare quei cocci di terracotta e quei marmi spezzati”, Giorgio Bocca, “Aspra Calabria” – in “Inferno”, 1992..
Bocca dice che i “custodi” leggevano la “Gazzetta dello sport” e guardavano il cielo. Questo non è vero: soprattutto fumavano, e schiacciavano le cicche sugli angoli delle scale e dei corridoi, perché il sovrintendente gli aveva proibito di fumare nelle sale – le poche aperte. “Le apriamo a turno”, dicevano, “non c’è abbastanza personale”. E, ridendo: “Se volete vederle tutte dovreste venire il 25 aprile, perché la operativa vattelapesca fa volontariato”.
Oggi? Il museo è del tutto chiuso, da quattro anni, e ai “custodi” piace meglio così: ricevono lo stipendio a casa.

Bocca ha anche un sovrintendente che per tredici anni, per non dare un riconoscimento al suo predecessore, faceva vedere sole le tavolette fittili di Locri. A cui succedette un sovrintendente che chiuse invece il piano di Locri, e riaprì gli altri piani, ma con le vetrine sporche, e senza l’aria condizionata. Il piano di Locri, che aveva l’aria condizionata, il nuovo sovrintendente adibì a Centro Esposizione, per i suoi amici pittori della domenica.

leuzzi@antiit.eu

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