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martedì 30 luglio 2013

La notte dell’Italia “indisfattibile”

Un libro che meriterebbe una celebrazione, per il quarantennale – anche se ci sono voluti quasi altrettanti anni per la sua pubblicazione in italiano. Sembra semplice: è la scoperta dell’Italia nella sua arte, nei quadri, le sculture, le architetture,  il paesaggio, nell’età in cui si fanno le scoperte, l’adolescenza: “Il libro ha per oggetto i sogni, le illusioni, che si rischiano nelle ore di solitudine”, minimizza il poeta nella postfazione scritta per questa edizione, di Marta Donzelli e Gabriella Caramore. Arricchita da immagini – d’arte e sociali – quasi tutte sorprendenti. Ma è molto di più. L’Italia evoca “il buio”, il rovescio dei sassi al sole della “strada bianca”, per i tanti passati che si accumulano e non si cancellano, o si sublimano nell’inconscio.: “Le paure più arcaiche, le intravisioni più fuggitive, e le grida nel nero, anche a mezzogiorno: credo, ho torto, d’incontrarli ovunque nell’immaginario italiano”. E per il numero, la geometrie che l’Italia ricompone.
Un libro vero. Una rilettura affascinante dell’Italia, tra Siena e Urbino. La “dimora a Urbino”, dove Bonnefoy di fatto non ha mai dimorato. Ma riflettendo giustamente che il palazzo di Francesco di Giorgio Martini è “l’emanazione dell’arte di Piero della Francesca”. Che, tra tutti gli artisti, è ben
“il maestro dei numeri” e “essenzialmente un architetto”, e questa è la ragione della sua ricerca di “armonia delle forme”: “Il numero, che non è che un sogno, l’incessante sogno del platonismo attraverso la storia, può tuttavia aiutare a disimpegnarsi dal sogno, pur senza trascurare niente, in quell’esperienza nuova, e spesso lucida, delle aspirazioni che avevano dato vita a quel grande miraggio. Ciò che gli consente di essere ora uno specchio dell’esistenza qual è, non come la si vuole: un mezzo per la verità”.
Un’antologia, tutto vi è citabile, degno di nota. “La malinconia, questo desiderio infelice dell’inaccessibile, ama anch’essa, benché a suo modo, il compasso e la regola”. L’architettura, “liberata grazie alla «musica» di cui parla Alberti dalle forme troppo affettate che l’arte gotica prediligeva”, con l’edificio a pianta centrale (“il centro del mondo è qui dove ci si trova”), è “il qui e oggi riconquistati, la finitezza raggiunta, fatta evidenza col mezzo imprevisto del numero”. Una scoperta che il poeta, dice, ha poi personalmente superato, “nelle sabbie dell’Asia”, e che tuttavia si legge fertile, seminale. 
Una lettura inebriante. “La prospettiva nel suo progetto d’origine si occupa meno della padronanza astratta dello spazio che di ristabilire un rapporto della persona col suo luogo naturale – e col suo corpo – che il pensiero puramente verbale dei teologi medievali aveva cancellato per troppo tempo. È un incitamento a uscire da quella notte, e un mezzo per farlo”. Tanto più per essere l’ultima lettura appassionante, una delle ultime, dell’Italia prima della sua eclissi. Cosa resta, volendo essere ottimisti, e riemergerà? La lucidità, inconscia, generale, modo di essere (per accumulo storico? per dna?). “La Notte”, che Michelangelo volle fredda, in pietra serena, “fra i toni cadi del giorno che bagna l’edificio”, è “una metafora della notte che resta al fondo di questo giorno, indisfatta, e forse indisfattibile”.
Yves Bonnefoy, L’entroterra, Donzelli, pp. XXIII + 119 € 23 

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