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giovedì 8 maggio 2014

L’arcitaliano antitaliano – o il Tartufo in noi

Sempre protagonista, seppure sempre dal lato sbagliato. Montanelli si può dire l’uomo delle sorprese. Anche perché non molto ne sappiamo. Lascia molti ritratti degli altri, gli altri non lasciano testimonianza di lui – solo i giornalisti che lui ha beneficiato al “Giornale” e alla “Voce”. Non ci sono Montanelli di Longanesi, Prezzolini, Buzzati, Montale. Uno che sempre inalbera un giornalismo “di serietà e rigore”. Ma grande, forse, come mistificatore. Professionista della denigrazione. Marciatore instancabile in surplace, sempre a rimestare il torrone. E Grande Opportunista, fino alla fine: uno che marciava con chi denigrava, i fascisti, i comunisti, i democristiani. Un Cagliostro dell’informazione, di cui è protagonista semmai per la spudoratezza, l’impunità.
Un depresso cronico, si vuole da ultimo, più volte al suicidio. E questa è forse la chiave. Ma c’è da credergli? Ha vissuto 92 anni pieni, fino all’ultimo istrione-regista di se stesso.
Letto tutto insieme è uno choc. Per il giornalista e il lettore. Via via fascista e antifascista, cattolico e mangiapreti, colonialista e anticolonialista, anticomunista e comunista, amico, estimatore, beneficiario di Berlusconi e antiberlusconiano. Paolo Di Paolo, che ha operato la scelta, antologizza gli attestati di amicizia e gratitudine per Berlusconi, compresa l’adulatoria incapacità di “doppiezza” e di “cinismo” dell’ex Cavaliere, ma quante cattiverie non gli ha risparmiato. Si è detto Cagliostro, ma è un piccolo Malaparte al meglio, quello minore di “Strapaese” e di “Maledetti toscani”, l’inguaribile bozzettismo toscano.
Scalfari lo celebra nel blurb “anarchico buono”, “guascone generoso” e “maestro”, ma non è anarchico né buono, né generoso, uno che da tutti prendeva, e neppure guascone. O “buono” quanto gli serviva per la cattiveria. Se fu imitatore di Malaparte – lo fu - è senza la strafottenza: è cattivo, e ingeneroso. E questo dentro la sua stessa prosa, senza scantonare nel vissuto: l’antifascista di una vita che invece fu fascistissimo, l’antirazzista volontario in Abissinia con schiava al seguito, l’italianissimo antitaliano, il peggior italiano, il comunista che trescava con Boothe Luce, al soldo dei francesi contro Mattei, e le buffonate recenziori, con Berlusconi e contro. Paladino costante, moraleggiante, magistrale, di “un giornalismo di serietà e rigore”, mentre inventava. Vessillifero in memoriam del giornalismo trombone (“letterario”) che sembra l’ambizione massima della professione, scrivere un romanzo. Perfino con le Br che gli spararono alle gambe vuole essere autoriale, quindi moralmente ambiguo. Ma maestro sì, ammirato, copiato. Di giornalismo e anche di vita, e questo toglie il fiato anche sul giornalismo.
Di Paolo ne ha tratto una scorrevolissima antologia. Ma che pena. Fosse stato un letterato di finzione, come si voleva e Di Paolo rimarca, c’è di meglio, Capote, Mailer, Tom Wolfe, Hemingway naturalmente, Orwell, di Down and out of Paris and London, o The Road to Wigan Pier, o Homage to Calatonia”, lo stesso Malaparte, e Buzzati, Montale, perché no, ma pazienza. Invece si vuole  giornalista – “al giornalismo devo tutto” (ma è più vero l’inverso, purtroppo – Di Paolo lo ha cercato da quando aveva quindici anni, scrivendogli, dice, “molte lettere”). E moralista. Una riedizione configurando del Tartufo, longilineo invece che paffuto, che non è personaggio grossolano ma insinuante, e non è datato o passato, presidia saldo questo perdurante secondo Novecento.
Sui ritratti, il suo pezzo forte, l’antologia evidenzia una indicativa ambivalenza. Spenti quelli delle maggiori personalità, Andreotti, Ben Gurion, Berlinguer, Golda Meir, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, con la sola eccezione di De Gasperi, un ritratto scolpito - e un Togliatti senza più cautela, contropelo, sprezzante. Vivi quelli del letterati e artisti, Buzzati, Dalì (in scorcio un’incredibile “scultura” di Garcia Lorca), De Sica, Fellini, Gide, perfino Gassman. Un letterato che non sentiva la politica – questo può spiegare le giravolte? Uno scrittore d’invenzione che si è trovato a fare il giornalista, prigioniero del suo immediato successo, come se il giornalismo (il successo) l’avesse intrappolato? Un esteta – un giornalista che non guida (anche se tanti giornalisti, in effetti, non guidano)?
Ma con qualche malinconia, questa si vede - sia la depressione vera, sofferta, o simulata. E qualche lealtà. Ai morti in genere, ma anche a qualche vivente. Una è alla “traccia sarda”, ultima sorpresa, un paio d’anni fa, ricostruita dal sardista Massimo Pittau, in “Il Littorio a Nugoro e in Sardegna” - il capitolo è online, col titolo “Un Sardo di carattere: il nuorese Indro Montanelli”, sul sito rinabrundu.com
Montanelli fece gli ultimi due anni delle elementari e i primi tre del ginnasio a Nuoro, dove il padre Sestilio era preside della Normale, le magistrali, compagno di scuola e di strada, in violenti giochi-riti di passaggio, di Orazio Offeddu, padre di Luigi, e del maggiore dei fratelli Pittau. Lui che non amava il Sud e a Roma era a disagio mantenne invece il rispetto per la Sardegna, per una volta senza nulla in cambio, di cui seguì trepido la modernizzazione -  “Forse i Sardi, che sono tra i pochissimi Italiani ad avere un «carattere», lo stanno perdendo”. Il carattere, ecco, è quello che manca?
Indro Montanelli, La mia eredità sono io. Pagine da un  secolo, Bur, pp.644 € 12

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