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mercoledì 7 maggio 2014

La selva oscura di Bruxelles

“È deplorevole che la maggioranza degli etnologi preferisca recarsi in Papua-Nuova Guinea piuttosto che a Bruxelles”, Enzensberger deplora a metà della sua riflessione. Lui ha scelto Bruxelles e ha in mano un forte reperto antropologico, benché contemporaneo: l’Europa ottusa. Un mostro anzi, sotto gli occhi di tutti, anche se non lo si vuole vedere.
Enzensberger ha “scoperto” Bruxelles nel 2010, retribuito e stimolato dalla fondazione Sonning di Copenaghen e dal Prix de Littérature Européenne di Cognac, due organismi culturali interessati evidentemente a riprendersi l’Europa, a salvarla. Il referto è esilarante, seppure contro le intenzioni – le intenzioni di quella specie di selvaggi che sono i burocrati di Bruxelles. Detti così, burocrati, sembrano niente. Ma basta scorrerne le normative, sulla “forma ideale” dei cetrioli, o dei sedili di trattore, o della tazza del gabinetto, per preoccuparsi. O pensare al nome di cui si adornano, commissari:  i commissari sono politici, o di polizia, e sempre l’antitesi dell’eletto. O dare un’occhiata ai loro “esecutivi”. Per esempio a quello della Politica estera e di difesa, che in realtà l’Europa non fa – salvo pretendere di allargarsi fino ai confini con l’Afghanistan: con un presidente, una baronessa inglese, una vera, del tutto incapace, sedici o diciassette vice, varie commissioni e consulenze, e una serie di rappresentanze all’estero, costose come un’ambasciata, senza alcuna funzione.
Basterebbe riflettere al cieco “uniformismo”, che è il cuore, insensibile, delle burocrazie. Ed è all’origine della fine dell’Europa: “Bastano gli strumenti della teoria dei sistemi. Secondo la quale la riduzione della complessità, da perseguire con la Comunità economica, genera inevitabilmente nuove complessità”. Uno ghiommero. Svolto e riavvolto da quindicimila lobbisti. Il cui risultato è il mostro più mostro di tutti, l’Acquis communautaire, 150, forse 200 mila pagine di direttive e regolamenti. E non è tutto: l’Eur-Lex, la banca dati normativa, registra un milione e 400 mila testi di cui il cittadino comunitario deve tenere conto.
Sono testi obbligatori come una legge senza mai essere stati votati. È qui la radice della disaffezione, un potere avulso e remoto. Si spiega che solo il 40 per cento degli europei considerasse positiva l’appartenenza del suo paese all’Unione Europea, nel 2010 – e oggi? Alle precedenti Europee, peraltro, ha votato solo il 43 per cento degli aventi diritto.
Enzensberger si diverte anche a sovvertire la storia, riportando l’Unione Europea a Churchill. E a un Churchill già fuori dalla politica, trombato dagli elettori inglesi. Al discorso di Fulton (quello della “cortina di ferro”) il 5 marzo 1946, poi di Zurigo, sei mesi dopo, e nel 1948 al Congresso dell’Aja per l’Unificazione Europea, organizzato dal genero Duncan Sandys e da lui presieduto. Non senza ragione. A Zurigo Churchill disegnò anche l’“asse” franco-tedesco: “Dobbiamo costruire una specie di Stati Uniti d’Europa… Il primo passo pratico sarà l’istituzione di un Consiglio d’Europa. E in questo urgente compito la guida dev’essere assunta dalla Francia e dalla Germania” – per finire evangelico: “Europa risorgi!”, let Europe arise.
Ma, poi, si dice Bruxelles per non dire Europa, la Germania cioè, la Francia, l’Italia eccetera. Enzensberger avrebbe dovuto fare di più: una vera critica europea, non solo per ridere, sarebbe andata alla radice della disaffezione: il ritorno della vecchia politica degli interessi nazionali, di cui la Germania è alfiere.
Hans Magnus Enzensberger, Il mostro buono di Bruxelles, Einaudi, pp. 99 € 10

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