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lunedì 22 dicembre 2014

Simone apprendista filosofa

Una Weil machiavellica? Nel senso scientifico (filosofico) del termine sì: “Secondo una formula celebre, la schiavitù avvilisce l’uomo fino a farsi amare”, confida a una delle note sparse confluite negli “Écrits historiques”. Senza però che questo liberi i padroni: “Il potere racchiude una sorta di fatalità che pesa implacabilmente sia  su quelli che obbediscono che su quelli che comandano”. I padroni sono anche loro costretti: “Conservare il potere è, per i potenti, una necessità vitale… I padroni possono pure sognare la moderazione, ma è a loro proibito praticare questa virtù”. È il “pensiero cinico del Rinascimento”, nota Jean-Marc Ghitti, uno degli autori di questa affascinata raccolta, ma in senso buono, critico. Di una pensatrice che fu certamente filosofa, ma filosofa pratica, con tutta la sua riflessione su Platone, Dio e la verità. A suo modo e per sua scelta anche cristiana, ma contro l’idea di progresso del cristianesimo.
Che resta da dire di Simone Weil? Molto, tolto l’impegno politico, e i veleni interreligiosi – l’ebraismo rifiutato, forse sconosciuto, l’adesione al cristianesimo romano. Questo dossier nutrito, di testi scelti, interventi e saggi l’uno più godibile del precedente, avrà accertato che Simone fu filosofa,  pratica. Con le categorie di Foucault, contro il parere di Gabriel Marcel - ma, questo, in medias res, da filosofo a filosofa: ha condotto una “vita filosofica”, in cerca di una “filosofia di vita”.
Un saggio di René Girard in forma di intervista ne svolge il pensiero. Dalle radici pre-cristiane in Platone e Pitagora allo sfruttamento contemporaneo del fatto religioso: “Ne parla meno di Nietzsche  ma discerne perfettamente la corruzione del religioso al coperto del religioso stesso.  Presentiva lo sfruttamento ideologico del religioso, il fatto che finalmente è presente dappertutto sotto una forma corrotta: corruptio optimi pessima. Avrebbe avuto molte cose da dire sulla nostra epoca”. Michel Serres la scopre mistica come – meglio di – nessun altro. E la sola filosofa che sapeva di scienza, di matematiche e fisica quantistica, e ne teneva conto.
Non una “filosofa sistematica”, argomenta Pascal David, domenicano foucaultiano, e questo ognuno lo può vedere: redige e pubblica poco, soprattutto articoli, quasi tutti su pubblicazioni politiche, di estrema sinistra, e in parallelo con una vita di impegno. Lascia l’insegnamento della filosofia per fare l’operaia in fabbrica, in varie fabbriche, poi la giornalista, in Germania e altrove, la militante di sinistra, la guerra di Spagna, l’operaia agricola, la Resistenza, dapprima a Marsiglia, poi a Londra. Morendo a 34 anni. Ma le sue annotazioni, per quanto sparse, mostrano che sa quello che fa: “Filosofia (ivi compresi i problemi della conoscenza, etc.), cosa esclusivamente pratica e in atto”. La filosofia come prassi più che sapere teorico: “Il metodo proprio della filosofia consiste nel concepire chiaramente i problemi insolubili nella loro insolubilità, poi a contemplarli senza più, fissamente, instancabilmente, per anni, senza alcuna speranza, nell’attesa”. Con questo criterio, aggiunge, “ci sono pochi filosofi. Pochi è ancora dire molti”. La filosofia è un “apprendistato” della verità, imprescindibile: “La verità sola distrugge il male in noi”. Ma senza illusioni: “La vera filosofia non costruisce niente”, approfondisce. Sgombera, come diceva Kant, “dinamita i falsi dei e i falsi beni”.
Senza Marx, né la Bibbia
Un dossier ricco, con molti materiali grafici, e foto d’epoca. Una settantina tra interventi critici e testi trascurati. Sul colonialismo, l’hitlerismo trionfante, la vita universitaria. E vedute inedite. Di Malraux, “La condizione umana”, che l’impegno riduce al bel gesto. Di Marx ponendo la domanda “c’è una dottrina marxista?”, che oggi fa l’unanimità – dal punto di vista spirituale Marx è idolatra, da quello materialista è religioso. Con conclusioni forti, se Platone è, più o meno, Gesù. Ipotesi tuttavia argomentata, anche non infondata filologicamente, se non  storicamente, nel senso del prima e dopo, cioè, come causa ed effetto. E alcuni dei problemi etici che la inquietavano. A lungo discute l’impegno a non dare mai indicazioni se nella lotta partigiana si cade in mano al nemico – sottinteso: il suicidio? Nella Resistenza si volle coinvolta nel sabotaggio, non alla propaganda – la filosofia è azione.
Con molti contributi sul suo antibiblismo, e quindi antisemitismo. Vittima, negli ultimi decenni del Novecento, del “pansemitismo”. Con le argomentazioni di Paul Giniewski, lo scrittore sionista, che cinquant’anni fa l’ha ascritta all’“odio-di-sé” degli assimilati, e ultimamente la inscriveva agli “alterebrei”, gli ebrei che criticano Israele - la categoria che una quindicina d’anni fa ha formulato Muriel Darmon, redattrice della rivista “Controverse”. E insomma, senza rimedio: chi tocca Israele muore. Giniewski anzi, personalmente, metteva Simone Weil al livello di Rosenberg, il razzista di Hitler. Per questo, e più in generale, questione leggermente forse fuori tempo, oltre che fuori quadro per eccesso.
Sempre in materia, di Edgar Morin il dossier ricorda che fa Simone Weil “figura complessa di identità ebraico-gentile”. Di Leslie Fiedler che invece se l’annette, in quanto “mistica ebrea”. E di George Steiner che si chiede, a proposito dell’ebraismo di Simone Weil: “Mi sono sempre domandato perché Socrate non era ebreo”. Emmanuel Gabellieri ristabilisce e redistribuisce i pesi, tra le “due sorgenti”, greca e biblica. Tra il cosiddetto ebraismo involontario e\o odio-di-sé dell’ebraismo secolarizzato (di Marx, Weininger, Theodor Lessing), e il marcionismo gnostico, che rifiuta l’Antico Testamento.
Con molti contributi italiani, di Domenico Canciani, suo editore ultimamente, Attilio Danese e Giulia-Paola di Nicola, Massimiliano Marianelli. Un’operazione praticamente franco-italiana, anche se Simone Weil è largamente edita in lingua tedesca e negli Stati Uniti, in letture diverse, di cui sarebbe convenuto tenere conto. Negli studi inglesi no, è assente: il dossier non trova di meglio che la famosa prefazione di T.S.Eliot alla traduzione di “Radici” nel 1951. Famosa perché è una stroncatura, a opera del curatore stesso della traduzione.
L’Europa sradicata
Eliot ne volle la traduzione immediata in inglese, per la casa editrice Faber di cui era uno dei direttori, per essere stata la raccolta postuma curata a Parigi da Camus e d’immediato successo. Ma la presentò con una critica insistita di “errori e esagerazioni”, e una professione di estraneità. Una stroncatura tanto più perfida perché “scritta” – riscritta, curata, si vede, pesata. Il poeta anglo-americano, più curiosamente ancora, riflette in questa assurda lettura la “bella guerra” come se la rappresentava l’Inghilterra, una guerra naturalmente  vittoriosa a motivo della libertà e non dell’arsenale americano, con soldati lustri e scattanti. L’autodistruzione dell’Europa che terrificava Simone Weil, a opera della Germania certo, ma la Germania è ben europea? No, il problema per Eliot è se Simone Weil sapesse il sanscrito , “lingua molto complessa”, per apprezzare le “Upanishad”, e abbastanza di greco.
“Radici” era, è, dopo la “Krisis” di Husserl, la sola opera sul problema Europa, pur così invasivo, grossolano perfino. La sola Europa radicata era allora quella che Valéry, dopo la prima catastrofe, sintetizzava nel 1919 (“Che cos’è l’Europa?”) in romana, cristiana e greca, che oggi si rifiuta. Lo scasso di Simone Weil sapeva di questo rifiuto latente e probabilmente ne ha individuato le vere ragioni.
Tutte le questioni personali che le vengono rimproverate, non solo da Eliot, e principalmente quella di volersi cristiana e rifiutare il battesimo, sono nella professione di fede cattolica a Jacques Maritain che il dossier riporta per intero: “Non sono battezzata. Tuttavia, quando mi si domanda se sono cattolica, rispondendo no mi sembra che mento”. Radicata si voleva ed era nella Francia, nella Francia del Seicento, Descartes e, malgrado tutto, Pascal.
 “Donna di genio, prossima alla santità”, ma “uno spirito che procede per folgorazioni”, su questo doppio binario procedeva Eliot. Contro la sua bolla, che ancora fa testo, il dossier de L’Herne ne traccia invece delle costanti. Una, la più originale, la pone lo stesso Eliot: il cristianesimo non può essere per lei che romano, ma “il suo rifiuto d’Israele” ne fa “una cristiana particolarmente eterodossa. Il fatto che ricusi l’Antico Testamento (e che, nei rari passaggi che trovano grazia ai suoi occhi, vi ravvisi una influenza caldea o egizia o indù) l’apparenta all’eresia marcionita. Rifiutandosi si ammettere che Israele sia investito d’una missione divina, rifiuta insieme il principio fondatore della chiesa cristiana. È qui ciò che spiega i suoi tormenti”. Senza contare che nella sua chiesa romana non c’è la Vergine e non ci sono i santi, se non come pensatori.
Ma l’asistematicità, la casualità perfino, della riflessione apre uno scrigno. Della divinità com’è noto, ma anche del bello e del vero. E della schiavitù, della libertà. Sulla coerenza Gabriel Marcel ha qui una pagina impegnativa, a proposito di Simone Weil che fu sua allieva: “Come avviene che la non-coerenza sia probabilmente il riscatto dell’atto col quale un essere abitato dal fuoco si dà all’assoluto – senza restrizione – irremissibilmente?...  Forse la coerenza è come l’economia, virtù di proprietario. Ma le virtù di questa specie sono di quelle che a un testimone dell’assoluto appaiono inevitabilmente come delle mancanze, che dico, come degli abusi”.
Lo spirito di Camus
La riscoperta del dossier va su entrambi i fronti, della riflessione e dell’impegno. Ma è su questo che ristabilisce alcuni punti. Compreso l’antisemitismo. Rimossa dal Diamat, il sistema a lungo dominante, Simone Weil è il “più grande del nostro tempo”, a opinione di Camus nel 1957, tra gli spiriti che contrassegnano l’epoca. Che comunque non ha lasciato indifferenti le migliori intelligenze del secondo Novecento, che il dossier ricorda. Pur impegnando i suoi pochi anni, di fatto e senza risparmio di forze, per quanto esili, nella realtà quotidiana dei suoi anni. Un pensiero fecondato da una vita intensa. Avendo cominciato a ragionare dall’adolescenza, compagna di studi, nel liceo di Alain e alla Scuola Normale, di Maurice Schumann, René Daumal, col quale studiò anche il sanscrito, Simone de Beauvoir, lo stesso Sartre.
Di Valéry, coscienza dell’Europa, di cui ha preso il testimone con “Radici”, era stata uditrice attenta al Collège de France nel 1937-38, spiega Florence de Lussy, in quanto filosofa e poetessa in erba. A suo interlocutore eleggendolo sulle questioni del linguaggio, più che dell’Europa. In un rapporto semplice ma non semplicistico. In uno dei “quaderni inediti” annota, a margine dei rilievi di Valéry all’argomentazione filosofica tipo, “verbalistica” e spesso incoerente: “Il linguaggio non è fatto per esprimere la riflessione filosofica; la riflessione non può utilizzare il linguaggio che con un adattamento delle parole che ne trasforma il senso, senza che il loro significato nuovo possa essere in se stesso definito da delle parole… È dell’opera filosofica come di certi quadri: non sono che un ammasso informe di colori fino a che non ci si sia posti a un certo punto da cui tutto si ordina”. E altrove:”L’oggetto della filosofia è reale”.
Simone Weil, Cahiers de L’Herne, pp. 407 € 39€ 

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