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martedì 24 marzo 2015

La metamorfosi di Jhumpa, italiana al risveglio

Una prova di autocreazione – di reincarnazione assistita. Una metamorfosi, dice l’autrice. Scrittrice di qualità e successo in inglese, moglie e madre appagata, Jumpha Lahiri decide a 45 anni di vivere a Roma e pensare e scrivere in italiano. Senza altra ragione che una fascinazione fuggevole in una visita lampo con la sorella a Firenze, quando aveva 27 anni.  “In altre parole” è la prova della reincarnazione riuscita. Un miracolo, di cui fa partecipe con una prosa asciutta e in ogni parola pregna.
Un  libro che si è venuto scrivendo giorno per giorno, dopo un primo anno di disorientamento, e pubblicato in brevi capitoli su “Internazionale”. Come un puerperio. Con momenti difficili, di scoraggiamento, angoscia – di “straniamento”, “disincanto” – ma nel complesso gioioso, poiché c’è il lieto fine. Di una lingua che lei stessa dice “covata”.
Non è il primo caso, ma i precedenti illustri sono diversi. Joyce stesso aveva provato per qualche anno a scrivere in italiano, ma poté “fare Joyce” solo in inglese. Beckett  era da tempo in larga misura francesizzato, quando decise di scrivere in francese. Lo stesso per Conrad – che comunque ha sempre avuto problemi – con l’inglese. Nabokov era cresciuto con l’inglese, ogni famiglia di russi colti aveva una seconda lingua. Lahiri è nata in una famiglia bengali emigrata da Calcutta negli Usa, nella cui lingua è stata cresciuta nell’infanzia, che però non padroneggia, l’inglese era la sua lingua. Nella quale si è formata e ha scritto, prevalentemente narrativa,  riconosciuta e apprezzata, dalla critica e dai lettori. Ha voluto il cambiamento per una sua decisione. Non da ribelle. Scrittrice anzi classica, di buoni sentimenti, dell’integrazione possibile tra mondi diversi – è suo “Il destino del nome”, il racconto delle due generazioni bengali tra India e Usa da cui Mira Nair ha tratto il film una diecina d’anni fa. La decisione è stata una scelta, non un capriccio o un salto di umore. L’esito è per più di motivo una pietra miliare.
È la storia di un amore, di una lingua. Ma di più sarà un trattato di linguistica. Cioè non un trattato, un esperimento in corpore – questa è la reazione di un’esperienza. Con più di una novità sulla maternità glottologica: l’inseminazione, la gestazione, il puerperio, il primo nutrimento. Un test-case di come si entra nella lingua: Non per imprinting, ma come uscendo dal nido, dall’uovo. Né per apprendimento, come “si impara una lingua”, ma per immersione. Affascinante. “Un progetto talmente arduo che sembra sadico”, “un’impresa folle”, riflette l’autrice, e tuttavia un atto di coraggio. L’inculturazione, anche, di cui tanto si blatera per le nostre società polietniche, è questa rinascita.
Un esperimento personale naturalmente, una sfida a se stessa, alla propria creatività. Troppo nuovo, e anche troppo denso, pur nella sua brevità. E un racconto sui generis. Aggraziato, di metafore semplici, evocative e familiari.
La scelta di un’altra lingua, in età matura, senza alcuna costrizione e anzi a dispetto di condizioni di partenza vantaggiose, è una novità assoluta. È un rifacimento di sé, un remake. Come nuotare in mare aperto, a un certo punto Jhumpa Lahiri ha questa impressione, rifiutando per giunta l’acqua che la sorreggerebbe, l’inglese con cui è crescita e di cui è specialista. Ma la traversata è ben governata, con quadranti e timoni. A suo sostegno si possono portare i pareri di Carlo Cattaneo e Karl Marx, che l’India assomigliavano all’Italia (un’identificazione di cui si può leggere a:
http://www.antiit.com/2014/07/il-mondo-come-182.html). Autorevoli, anche se nessuno dei due sapeva nulla dell’India, e Marx niente neppure dell’Italia.
Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda, pp. 156 € 14

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