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giovedì 16 aprile 2015

Secondi pensieri - 214

zeulig

Antropologia - Ha bisogno di categorie, di fissare il mondo, sezionando (definendo) e quindi escludendo. U’esplorazione che chiude più che aprire. Come l’archeologia, che ricopre dopo avere scoperto, per sostituirsi al ritrovamento – memoria, visione, descrizione, ricostruzione, interpretazione.

Bellezza – “Una finalità che non contiene alcun fine” di Kant è la sua bellezza. Ma anche il suo criterio utilitaristico – la bellezza non è qui per nulla. Superiore, non appropriabile, inattaccabile, e tuttavia insieme meta e percorso, “spintarelle” comprese, anche se proibite e in teoria non necessarie. È bello in questo senso anche il brutto: il buio del firmamento, l’opacità della materia, lo scheletro arcigno, scomposto, che sottende l’immagine – la quale sempre in qualche modo si ricompone, anche se triste o sfigurata.

Si cerca da un secolo nella decomposizione e il rifiuto. E tuttavia sempre in forma di ricerca – attiva, aperta. La vera decadenza – il rifiuto della bellezza – sarebbe l’inerzia, dei sensi e della mente, l’ottundimento, l’atonia. La bellezza del mondo non è in esso, un attributo della materia: è un rapporto tra la materia  e la sensibilità umana, una forma della conoscenza. Necessariamente esilarata, sia pure nella décheance (depressione, rifiuto).

Decostruzione – Va, senza limiti, come in automatico, comoda scorciatoia. Rapida cioè ma rigida. Ancillarmente all’ermeneutica, l’invenzione della tradizione. Ma per quali contenuti di verità? Soprattutto quando pretende di uscire dal gioco linguistico, di farne una metafisica. Una vivisezione da pelo nell’uovo.
È anche un procedimento sonnambulistico. Da riflesso condizionato. Una meccanica. La riproduzione di una cultura cioè, di un certa forma di lettura del reale, specie se linguistico – e anche di una forma mentis. Innovativa e quindi interessante, anche gratificante. Ma riduttivo e quasi un gergo. Tribale, se non settaria.
Derrida ci arriva come adattamento alla sua formazione culturale – linguistica, ermeneutica - della Destruktion che Heidegger proponeva della metafisica.

Filosofia – Ruminazione, rimasticazione, e che altro? Un campo vuoto in cui non succede niente la voleva Althusser: “La filosofia è questo luogo teorico strano in cui non succede propriamente niente, nient’altro che questa stessa ripetizione del niente”.
Onanismo? La positività del vuoto viene dall’orrore di sé, che in qualche filosofio (Althusser, che la elabora in “Lenin et la philosophie”? osso duro) ha più di una ragione d’essere. Ma a parte ciò?

Giustizia – “Il carattere legale di un castigo non ha un vero significato se non gli conferisce qualcosa di religioso, se non lo rende simile a un sacramento; di conseguenza tutte le funzioni penali, da quella del giudice a quella del carnefice e del carceriere, dovrebbero, in qualche modo , assimilarsi alla funzione sacerdotale”. Così Simone Weil nelle seminali “Forme del’amore implicito di Dio”. Un giudizio che è riscontabile all’inverso – nel diniego della giustizia in realtà – nell’applicazione pratica delle leggi: la giustizia, intesa come sistema giudiziario non ha considerazione per “il carattere legale del castigo”, come mostrano i suoi ministranti, sacerdoti sempre di una chiesa (partito, pregiudizio). Tanto più se religiosamente entusiasti più che opportunisti.

Machiavelli - Machiavelli non era machiavellico. Altrimenti avrebbe scritto sermoni edificanti, vite di santi – l’Aretino lo faceva, per infinocchiare il papa. Un Antimachiavelli è invece ottima opera machiavellica.

Althusser, che lunghe riflessioni gli ha dedicato, ci trova(va) il pensatore attivo: l’uomo di pensiero che riempie il vuoto che è del pensiero con un programma e un progetto  – uno che riempie il vuoto. Il prototipo del pensatore rivoluzionario. Cui accredita però anche un forte consistenza filosofica: “Lascio da parte le implicazioni puramente filosofiche della sorprendente teoria del gioco della Fortuna e della virtù (= incontro, materia\forma, corrispondenza\non corrispondenza”).

Storia – “La storia è una scienza morale al di sopra di tutto, più o meno come la veduta di una casa di appuntamenti, e quella di un patibolo pieno d sangue”, Flaubert quattordicenne nei “Funerali del dottor Mathurin”. Una balconata e una scena.

Stupidità – Socrate la sanziona nel “Gorgia” - con l’ignoranza. Senza alcuna ironia, nemmeno socratica.

Vanità - È tema trascurato, benché a lungo centrale con la vecchia “Vulgata”, attorno e dentro l’“Ecclesiaste”. E sempre al minimo, la vanità di sentirsi importanti, di esibirsi. Mentre è un aspetto non trascurabile della “cosa” – del mondo, della vita.

Volontà – “La volontà è una facoltà della mente” ignota agli antichi, “scoperta da Paolo e studiata a fondo da Agostino”: Hannah Aredt insiste ripetutamente su questa genealogia, nella sua ricerca della morale introvabile (in “Alcune questioni di filosofia morale” e altrove). È per questo, per questa derivazione, che la funzione è poco filosofica – oggetto di riflessione? Non è progredita molto, approdando anzi alla “volizione” del confuso Pound. E che dire di Kant, della “Fondazione della metafisica dei costumi”?  “La ragione determina la volontà immancabilmente… La volontà è la facoltà di scegliere solo ciò che la ragione … riconosce… come buono”. Dopo il celebrato attacco: “È impossibile pensare nel mondo e, in genere, fuori di esso, una cosa che possa dirsi buona senza limitazioni, salvo, unicamente, la volontà buona”.

La ragione determina la volontà, dunque. Anche la volontà di potenza?  Meglio ne esprime la natura – i limiti – Simone Weil, nel seminale “Forme dell’amore implicito di Dio”: “Il concetto di morale laica è un’assurdità perché la volontà è impotente a produrre la salvezza. Ciò che si chiama morale, infatti, fa appello alla società, e proprio a ciò che essa ha, per così dire, di più muscolare. La relgione invece corrisponde al desiderio, ed è il desiderio che salva”.

Volontà di potenza - Tutto Nietzsche Hannah Arendt rilegge in questa ottica (“Alcune questioni di filosofia morale”, pp. 96 segg.), e san Francesco, e Gesù: “La filosofia d Nietzsche si basa tutta su un’identificazione della volontà come volontà di potenza”. Tutta protesa, tra i paradossi e le intempranze, all’affermazione della volontà. E in questo, “nell’equazione tra volontà e volontà di potenza, la potenza non è affatto ciò che la volontà desidera o vuole, non è la sua meta o il suo contenuto! Volontà e potenza, volontà e sentimento di potenza sono la stessa cosa”. Ma di segno particolare: “Questa potenza, la pura potenza dell’atto di volere in quanto tale, Nietzsche la interpreta come un fenomeno di sovrabbondanza, come il segnale di una forza che è maggiore di quella che ci vorrebbe per far fronte alle richieste della vita quotidiana”. È creatività, e bontà: “Sarebbe proprio questa sovrabbondanza di forza, questa stravagante generosità o «volontà munifica»  che spingerebbe gli uomini a desiderare o amare il bene. Il che coincide, del resto, con quanto sappiamo di quegli uomini che hanno speso la loro vita nel «fare il bene», come Gesù di Nazareth o san Francesco d’Assisi, che non brillavano certo per umiltà ma per una forza in eccesso”.

zeulig@antiit.eu

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