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venerdì 4 dicembre 2015

La guerra per ridere

Il ridicolo della guerra. Rappresentato da un nazionalista, prossimo a diventare mussoliniano. Tragico a volte, ma per essere grottesco. La guerra come un seguito di situazioni assurde, non fosse la morte di soldati inermi. Raccontata a distanza doppia. Dopo la sua conclusione, bene o male vittoriosa, e quindi fuori dalle polemiche politiche che avevano accompagnato il conflitto, ma senza la facciata del patriottismo che tutto vela. Da uno scrittore in età e di Catania, lontano anche fisicamente dalle beghe di palazzo e nei comandi militari. E dopo, forse, non ce n’era altra, non c’era altra guerra – niente eroismi, imprese ardite, la memorabilia.
La guerra come “smisurato contenitore di storie”, nota Gabriele Pedullà, che cura questa raccolta. Tema di uno smisurato numero di scrittori, di cui rifà l’elenco. Compresi quelli che non vi poterono partecipare perché riformati. E quelli come De Roberto che avevano passato l’età. Una cinquantina quelli che restano nella storia della letteratura - e manca all’elenco la memoria migliore di tutti, alla rilettura, per drammatizazione e verità storica, quella del giovane Hemingway di “Addio alle armi” (migliore per la vita di trincea, e l’anamnesi della ritirata e dell’inadeguatezza dei comandi, della loro violenza cieca, incapaci di ordinare e solleciti a “giustiziare”, ad addebitare sommariamente Caporetto ai soldati - non c’era ancora stato l’8 settembre, ma Hemingway aveva capito venticinque anni prima, e con lui, in parte, Malaparte).
Una raccolta di racconti. Lunghi la gran parte, ma di lettura, di buona tecnica: caratteri, situazioni, dialoghi. Documentati, documentatissimi: De Roberto sa la geografia fisica e la toponomastica, la vita di trincea, e le mentalità o linguaggi. Che diversifica anche col sussidio dei dialetti, sempre appropriato, nell’ortografia, la sintassi, le caratterizzazioni. Racconti a intreccio, a differenza dell’autobiografismo della letteratura di guerra. Ma non “raccontini con lo sparo finale”, di quelli agiografici che Italo Calvino lamentava, i suoi compresi, della Resistenza. Alcuni drammatici, ma disincarnati e quasi spassionati, disincantati. Se non frivoli, anche quelli “neri”, “La paura” del titolo, “L’ultimo voto”. Costruiti su aneddoti gai per lo più, brillanti.
“La cocotte”, il primo racconto della raccolta, e titolo della prima raccolta “di guerra” dello scrittore nel 1919, sberleffa i regolamenti che vietavano alle mogli di avvicinarsi ai mariti al fronte, ma vi mandavano, protette, le signorine. Il secondo, “All’ora della mensa”, mette in scena gli improbabili ufficiali riservisti dei Comandi di Tappa, il maggiore rinsecchito alla don Chisciotte, l’aiutante maggiore più tondo che alto, il tenente di “appena il metro e cinquanta” di rigore, attorno a un sabotaggio che è solo fame.“La retata” irride ai sacri valori del conflitto. “Il rifugio” mette a improponibile confronto le regole della guerra con l’umanità dei singoli.
Una raccolta a suo modo memorabile, di un’“altra” guerra: con un fondo sempre ilare, più spesso sapido. La introduce del resto una monografia critica di cento pagine. Un evento, questa fatica di Gabriele Pedullà, se non altro perché anomalo, fuori voga - che forse per questo ha lasciato muta la stessa critica. Una monografia in realtà sulla letteratura di guerra, della Grande Guerra – corredata di vasta bibliografia ragionata. Partendo da una parentesi: “(la famosa tesi di Walter Benjamin, secondo cui dalla Grande guerra i reduci tornarono senza alcuna esperienza da raccontare, è clamorosamente smentita dal numero delle pubblicazioni degli anni successivi)”. Ma la tesi era già smentita, come numero di pubblicazioni, quando Benjamin scrisse questa osservazione, in “Esperienza e povertà”, il 7 dicembre 1933, che vale citare per intero: “Una cosa è chiara: le quotazioni dell’esperienza sono cadute e questo in una generazione che, nel 1914-1918, aveva fatto una delle più mostruose esperienze della storia mondiale”. Mostruoso è l’aggettivo più calzante per De Roberto - il volume delle rievocazioni conta poco.
Anche il seguito di Benjamin merita: “Forse questo non è così strano come sembra. Non si poteva già allora constatare che la gente se ne tornava dal fronte ammutolita? Non più ricca, ma più povera di esperienza? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era tutt'altro che esperienza che scorre dalla bocca all’orecchio. No, non era strano. Poiché mai esperienze sono state smentite più a fondo di quelle strategiche attraverso la guerra di posizione, di quelle economiche attraverso l’inflazione, di quelle corporali attraverso la fame. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro - in un campo di forza di esplosioni e di correnti distruttrici - il minuto e fragile corpo umano”. Una guerra che è stata una “smentita”, dunque. Della retorica, della demagogia. Ma anche di un modo di essere, o di concepirsi: una sovversione.
Anni prima, nel 1926, in “Strada a senso unico”, lo stesso Benjamin ne aveva dato il senso, della Grande Guerra come esproprio dell’esperienza e riduzione della persona a massa, che caratterizzeranno la contemporaneità: “Masse umane, gas, energie elettriche sono state gettate in campo, correnti ad alta frequenza hanno attraversato le campagne, nuovi astri sono sorti nel cielo, spazio aereo e abissi marini hanno risuonato di motori, e da ogni parte si sono scavate nella madre terra fosse sacrificali”. Ogni esperienza individuale, e quindi la capacità di farsi la storia, di raccontarsela, di raccontarla, la guerra ha dissolto come in un “bagno di acido solforico”. Se non - a distanza, alla doppia distanza di De Roberto - criticamente.
La trattazione di Gabriele Pedullà  è articolata sulla tripartizione di Oliver Stone, il regista: “Chi c’è stato, chi non c’è stato, chi avrebbe voluto esserci”, sottinteso in guerra. Sul racconto della guerra  anche da parte di scrittori che per l’età ne sono stati esclusi, Svevo, Pirandello, Di Giacomo, Panzini. In aggiunta ai riformati che non se ne diedero pace, Papini, Gozzano, Boine, Arturo Onofri. E i troppo giovani, Gallian, Brancati. De Roberto appartiene alla seconda categoria. E quindi d’ufficio ascrivibile agli “inventori” della guerra che uno degli agiografi, Paolo Monelli, depreca in “Le scarpe al sole”. Ma rispettoso e corretto, sebbene ardente patriota - e documentato. Il racconto del titolo, “La paura”, Pedullà dice “l’essenza profonda del primo conflitto”. Gran nmero di critici e studiosi se ne sono occupati: la rappresentazione del sacrificio inutile in guerra, della morte inutile, o della guerra come successione di ordini assurdi, con l’unico effetto di mandare i soldati a uno a uno alla morte.
Federico De Roberto, La paura e altri racconti di guerra, Garzanti, pp. 430 € 13

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