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sabato 19 marzo 2016

Il mito del sangue sembrava comico

Al suo Urvolk – il popolo tedesco, “primordiale”, “puro” – il privilegio Fichte connette alle “condizioni di razza e di origine, che un Rosenberg oggi non esiterebbe a chiamare ebraiche… o cattoliche”. Famoso e un po’ famigerato, l’excursus di Evola nel razzismo germanico è una presa di distanza, al limite dell’irrisione. Benché ne scrivesse nel 1937, quando l’Italia stessa accedeva all’antisemitismo. I miti sono una cosa seria, ammoniva subito: veri o falsi, sono un’idea guida, difficile da smantellare. Ma sono funzionali, a una concezione o formazione politica, a uno Stato, a interessi vari. E capovolgibili: “Si deve riconoscere che questi spunti razzisti si capovolgono in idee completamente opposte”. 
La trattazione è difficile da maneggiare dopo l’Olocausto. Ma è di lettura opportuna oggi, nella paura dominante della misgenation, dell’invasione che l’Europa teme dall’Asia e dall’Africa. E non è solforosa, come si vuole quanto si riferisce a Evola: è su un indirizzo da studioso e non da politico – “il nostro proposito, una pura esposizione oggettiva” – che licenzia l’impresa commissionatagli dall’editore Hoepli. Commissionata a un autore che aveva più volte criticato il razzismo hitleriano: “Il «mito» del nuovo nazionalismo tedesco”, 1930; “La mistica del sangue nel nuovo nazionalismo tedesco”, 1931; “Osservazioni critiche sul «razzismo» nazionalsocialista”, 1933; “La concezione «antiromano-razzista» del diritto”, 1934; “Superamento del razzismo” e “Paradossi dei tempi: paganesimo razzista = illuminismo liberale”, 1935; “L’equivoco del «nuovo paganesimo»”, 1936. Punteggiandolo, sia pure solo per spirito di polemica, derisoriamente – questo “Mito” è un saggio del migliore radicalismo italiano, da “Lacerba” a Salvemini, e infine a Pasolini, ma di prima mano, di chi sa di che tratta. Di Hitler, nel capitolo conclusivo, mette in rilievo il proposito di suscitare nel popolo tedesco, come dice lui, “fondato sull’unità del sangue”, un “sicuro istinto di mandria”. La peggiore ingiuria per uno che fa professione, chiudendo il suo excursus, “di una spiritualità intransigentemente antimoderna, aristocratica, imperiale e «romana»”.
Simbolo oscuramente scelto
Evola spregia il razzismo, ma ne conosce la forza. La razza è un mito non nel senso che sia una finzione. È un’idea e un progetto, che trae la sua forza persuasiva da elementi non razionali. “Quello del sangue, della razza, e più specificamente del sangue nordico e della razza aria”, Evola dice “il simbolo oscuramente scelto” dalla Germania di Hitler. E si accinge alla disamina del fenomeno premettendone i limiti: si contesti pure un mito razionalmente, freddamente, scientificamente, non se ne “raggiungerà mai il nucleo più profondo, ossia l’intima necessità, il fatto di sentimento che dà sostegno e forza al mito stesso” – il mito è “un centro di cristallizzazione”, aggiunge stendhaliano.
Il mito risale a Herder, al suo “spirito dei popoli” come manifestazione divina. Alla scuola anglo-tedesca Georgia-Augusta di Gottinga, specializzata nell’arianesimo. E a Fichte: al suo popolo tedesco come Urvolk,  popolo “primordiale” che ha saputo conservarsi “puro”, senza adattamenti – a differenza dei Franchi, tedeschi “impuri”, e altre tribù teutoniche. Con due codicilli: solo la lingua tedesca e la filosofia tedesca sono “originarie”, solo il cristianesimo tedesco è cristiano. E un’avvertenza: “Il popolo metafisicamente predestinato ha il diritto morale di realizzare il suo destino con tutti i mezzi dell’astuzia e della forza”. Il tutto mescolato, come è d’uso in Germania ancora ai giorni nostri, con la professione di “umanità totale”: lo “Stato organico” Fichte vuole fondato “sull’uguaglianza di ogni essere che abbia sembiante umano”.
Viene poi Gobineau, che indagando la decadenza degli imperi e le civiltà, la imputa alla “degenerazione etnica”. Di cui è veicolo l’uguaglianza – il conte era conseguente, a differenza di Fichte.  “La storia sorge solo dal contatto con le razze bianche”, stabilì famosamente.  Dopo Gobineau dilaga l’antropologia, orecchiata (Chamberlain) e accademica – anche da parte di studiosi ebrei. Una lunga sfilza di nomi e di teorie che Evola diligente elenca e illustra, con un sottile effetto ironico – oggi certo, ma probabilmente anche ieri, per varie sottolineature interpolate qua e là.  Di più estendendosi sulle complesse architetture di Hans F.P.Günther, Hermann Wirth, e di F. Ludwig Clauss, tra i loro tipi e sottotipi, le ricostruzioni della preistoria, e gli spassosissimi – non fossero stati innestati sul razzismo – “caratteri” delle “tipologie” razziali, completi di figurazione fotografica. Per concludere, con lo studiosissimo Günther, che “la maggior parte dei tedeschi non solo non derivano da genitori di razza magari diversa ma pura, ma sono il risultato di elementi già misti”. E col ridicolo di Rosenberg, che priva gli ebrei anche della religione….
La religione nordica
Opera dotta, seppure breve, e complessa: molti garbugli e tracciati Evola spiega. E in poche – relativamente – pagine un immenso dettagliato sciocchezzaio mette in chiaro. Presentato come tale, per note fugaci ma sensibili, agli snodi. È inutile menarla, conclude a proposito dell’antisemitismo, su cui tutta la ricerca razziale, un secolo e mezzo di voluminose classificazioni, poi converge, la questione è etico-sociale. Cioè: fuori gli ebrei, che fanno troppi affari e si prendono i posti migliori. La questione è, aggiunge Evola, quella che Dühring, e il critico di Dühring Marx, hanno impostato nel 19843-1844. Con citazioni da far rabbrividire. Ma con umoristica nota conclusiva: “Non si può sempre spiegare il predominare degli Ebrei nelle professioni intellettuali con i loro raggiri e la loro astuzia”. Esilarante anche a tratti. Con la “religione nordica” di Rosenberg, Hauer, von Reventlow,  Bergmann. O quella laica dello stimato Water Darrè, “Contadinato quale Fonte di Vita della Razza Nordica”
Devastante da ultimo, in gergo calcistico, nell’attacco al capitolo “Razzismo e  antisemitismo”. Tutto il mito della razza – l’antropologia, la preistoria, la storia, la psicologia e la psicosociologia – è inteso a fondare l’antisemitismo, e non si vede come: “Come da questo composto etnico”, il popolo ebraico, “abbia potuto sorgere un sentimento così vivo di solidarietà e di fedeltà al sangue, conservatosi anche nelle situazioni meno propizie, e tale da far pensare che il popolo ebraico praticamente sia stato fra i più «razzisti» della storia, questo è un mistero su cui gli autori antisemiti gettano poca luce”. Un antisemitismo della razza ma anche della religione. Della religione ebraica “è vero che già un ebreo, lo Spinoza, aveva accusata una certa corpulenza, crudezza e sensualità”, ma su questo metro, conclude subito Evola, non c’è religione che si salvi. 
La scienza razzista è di nessun fondamento, se non lo sciovinismo. Ma densa, densissima di argomentazioni, anche se false e molto spesso bislacche. Di disinvoltura pari alla presunzione. L’Umanesimo e il Rinascimento sono in genere disprezzati. Ma a volte (Chamberlain, Woltmann) annessi, germanizzati. Chamberlain arianizza anche Gesù, “dolicocefalo biondo”. Evola procede incredulo, essendo un germanizzante, di formazione e di scelta. Specie considerando, come notava già Chamberlain trionfalistico, che il mito tedesco della razza “in nessuna forma si conserva in modo così eloquente  come nell’avversione istintiva contro Roma”. E finisce per montare una Biblioteca della Stupidità. Anche da imperialista romano-centrico, opposto all’impero germano-centrico. Ma è la stessa scienza della razza che si presenta incontinente nella sua sintesi.
Julius Evola, Il mito del sangue, Ar, pp. 160 € 18
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