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giovedì 19 maggio 2016

Čechov resiste ai čechoviani

Una silloge dell’epistolario per scuole di scrittura. Con due note introduttive e un’appendice (“Un medico all’inferno”) di Piero Brunello. Collaziona i due brevi manuali di minimun fax una dozzina d’anni fa: ”Senza trama e senza finale. 99 consigli di scrittura” e “Scarpe buone e un quaderno di appunti. Come fare un reportage”. Quest’ultimo montato con materiali preparatori dell’inchiesta che Čechov condusse a Sachalin, l’isola-penitenziario sul Pacifico, nel 1890, e un’antologia dal suo “L’isola di Sachalin”.
Un Čechov inevitabilmente ripetitivo, in questa funzione didascalica, svuotato. Gli estratti sono preceduti da fastidiose sintesi didattiche, specie nella seconda parte: “Leggere e riassumere”, “Cambiare aria”, ”Usare il tatto”, “Usare l’olfatto”… Di consigli di scrittura che sarebbero, per il curatore Piero Brunello, anche consigli di vita. Una silloge tuttavia non dozzinale, come sempre per Čechov, che sopravvive ai čechoviani: anche qui è tutti noi, misurato, inquieto, acuto, mite, arguto. “L’isola di Sachalin”.mantiene, malgrado la frantumazione, una sua dignità di racconto: un’isola dei morti, di deportati e ex deportati – sull’esempio dell’Australia che Čechov non cita, ma senza la fertilità del clima e del suolo. Il cui progetto è dovuto a un agronomo e filantropo di cui Čechov ha stima: Michail Semënovič Micul’ dice “uomo di grande forza morale, grande lavoratore nonché ottimista e idealista appassionato”. O del male effetto del bene, che a ben guardare è il filo rosso di Čechov.
Il suo mondo peraltro sembra stranamente quello di oggi. Della legge applicata a caso. Della burocrazia ottusa, malvagia per stupidità. Dell’abiezione senza rimorso. Specialmente contemporaneo il suo intellettuale: “C’è nella nostra diletta patria una grandissima povertà di fatti e una gran ricchezza di ragionamenti d’ogni specie”. L’intellettuale di Čechov è quello della sintesi che ne fa Nabokov: “È infelice quest’uomo, e rende infelici gli altri; non ama i propri fratelli, neanche le persone che gli sono più vicine, ma solo le più remote. La sorte di un negro in un paese lontano, di un coolie cinese, di un  operaio degli Urali, gli causa una fitta di sofferenza morale più acuta che non le disavventure del vicino o i guai della moglie”.

Di sé del resto Čechov scrive, al suo editore Suvorin: “Non abbiamo scopi né immediati né lontani,  nella nostra anima c’è il vuoto assoluto. Non abbiamo concezione politica, non crediamo nella rivoluzione,  non abbiamo un Dio, non temiamo i fantasmi e, quanto a me, non temo neppure la morte né la cecità”.
Anton Čechov, Né per fama, né per denaro, Beat, pp. 209 € 9

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