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martedì 17 maggio 2016

Il lager delle donne non era così bello

Un libro di fotografie, patrocinato dall’Aned, l’Associazione nazionale ex deportati, per i  settant’anni della Liberazione. Da parte di una figlia e nipote di deportate, i quanto antifasciste, poi sopravvissute. Membro dell’A ned, e del Comitato Internazionale di Ravensbrüuck, Laurenzi dà una testimonianza fotografica dei luoghi come sono oggi, con didascalie di memorialisti e contemporanei. Con quattro o cinque altri interventi, di maniera - di condanna. Ma il volume s’impone per le immagini, e queste sono forse un po’ malinconico, ma di lindura. Mentre un lager è un luogo orrendo. Non solo concettualmente, anche fisicamente.
Ravenbrück, il lager delle donne, è stata una struttura sordida, benché in terra tedesca – a differenza dell’altro grande campo di deportati politici in terra tedesca, Dachau, dove pure si moriva ma senza tormenti. C’era una fabbrica della Siemens, per sfruttare le deportate a costo zero, quasi. C’era la Scheisskolonne, la colonna o squadra della merda, che rimestava per ricavarne concime. C’erano gli esperimenti in corpore, con amputazioni e sieri letali. E c’era, è vero, molta umanità. Di chi ci è rimasto ma in qualche modo ne ha scritto, e di chi è riuscito a raccontarla. Lidia Beccaria Rolfi per prima, una ragazza staffetta partigiana che sopravisse al lager e nel 1978 trovò la forza di raccontarlo, con l’aiuto di Anna Maria Bruzzone. Alcune deportate, soprattutto le francesi, ci scherzano sopra. Germaine Tillon ci ha scritto sopra un dramma, su pezzetti di carte che riusciva a raccogliere nella spazatura, diosnendo di una matita, Der ver.., che le deportate recitarono. C’era nei regolamenti del lager di evitare di sedersi sulla tazza, bisognava farla in piedi – ma anche stando con i piedi sulla tazza si poteva essere puniti, le SS punivano chi volevano. Ravensbrück non era propriamente un campo di sterminio, ma la madre di Helga Schneider, volontaria SS, vi era impegnata con le cavie umane degli esperimenti disumani sui sulfamidici e la sterilizzazione: si sceglievano le donne giovani e ancora in forze, che venivano infettate o mutilate a vivo, e poi lasciate morire tra i dolori. 
Le immagini sono una sorpresa anche per chi ha conosciuto i luoghi. Che sono ameni, ma sono pure inquietanti. La pubblicazione segue purtroppo il vezzo della Repubblica Federale, che, a differenza della polonia, che tiene Auschwitz com’era, col filo spinato, la ruggine e lo squallore, ingentilisce i lager come monumenti da visitare, con aiuole e fiori, Dachau come Ravensbrück. Non una buona politica.
Così Astolfo ricorda Ravenbrück nel romanzo “La gioia del giorno”, 2008, ancora in edizione:

Ravensbrück fu lager gentile, sulle sabbie e sotto i pini del Meclemburgo, alla luce perlacea del Baltico, tra le dune sotto il lago di Fürstenberg, a un’ora da Berlino, a due da Lubecca, altro nome fatale, ci passerà l’autostrada da Amburgo. Ospitò Geneviève, Milena, Gretchen, Germaine, Charlotte, Douce Giroud, staffetta della Resistenza, lei che aveva sposato un cagoulard, milite volontario di Vichy, Lidia, Gertrud Luckner, le politiche Teresa Noce naturalmente, “rivoluzionaria professionale”, Hélène Langevin, Marie-Claude Vaillant Couturier, e altre donne di qualità. Valchirie ventenni vi si esercitavano a uccidere le eroine, dopo averle debilitate. Ma pochi al confronto, dei ventimila che transitarono nell’attiguo campo per maschi, poche diecine, si salvarono. Si uccideva col cianuro dello Zyklone B, coi gas di scarico dei motori, le iniezioni di cloroformio al cuore, il veleno nella zuppa, i sonniferi, i lanciafiamme, il mitra, pistole, di grosso e piccolo calibro, bracieri ardenti, bombe al fosforo, bastoni, cani, l’obbligo di stare in piedi, in camicia, al freddo, senza cibo. Centodiecimila donne vi sono passate, cinquantamila non ne sono uscite.
“Questo era un lager per bene, e fino all’estate del 1944 le famiglie furono avvisate dei decessi, tutti per incontestabile arresto cardiaco. Le detenute della Scheisskolonne, la squadra della merda, pestavano gli escrementi coi piedi, quindi li appallottolavano con le ceneri per ottenerne un concime. I neonati s’immergevano in secchi d’acqua, dove morivano in dieci-quindici minuti. Qualche neonato sopravvisse, chiuso negli stracci, una o due settimane. Fu qui che il dottor Gebhardt diventò professore, facendosi nominare da Hitler poche ore prima della fine capo della Croce Rossa, con la vivisezione di settantacinque ragazze polacche. Il dottore induceva la cancrena nelle cavie umane per dimostrare che Heydrich, che presto peraltro morirà colpito dalla Resistenza ceca, non avrebbe potuto evitarla dopo l’attentato. Assassinare per la scienza era primario impegno del nazismo: l’orario delle esecuzioni nelle ventuno carceri a esse adibite fu programmato d’ordine di Hitler sulle esigenze degli istituti di ricerca.
“Nel 1940 la Gestapo ci teneva cinquemila prigioniere: politiche, ebree, testimoni di Geova, zingare, criminali. Nel 1945, approssimandosi la sconfitta, le prigioniere erano quarantaseimila, comprese le soldatesse russe, stipate in trentadue baracche, più settemila uomini nel campo attiguo. Lavoravano per la Siemens, a ciclo continuo, su turni di dodici ore, le più fortunate. Erano donne in massima parte inesperte della vita politica o criminale: la disgrazia introiettavano, consumando rapidamente le difese dell’amor proprio, e intristivano nell’animosità verso chi stava loro più vicino, le altre compagne di sciagura, prima della rapida fine. Le criminali che nel 1942 furono trasferite a Auschwitz fecero invece le migliori kapos del campo di sterminio, “per resistenza, bassezza, trivialità e depravazione”, a giudizio di Höss, il comandante. Meglio rispondevano le prigioniere politiche, cui l’internamento, manifestazione di timore da parte del nemico, rafforzava con l’orgoglio la resistenza fisica.
“I russi liberarono Ravensbrück a fine aprile 1945, gli americani subentrarono dopo qualche settimana. Il campo ha stimolato molta creatività, dirà Denise Mac Adam. Ma è stato il luogo più persistente dell’irrealtà, le deportate non potevano parlarne, non c’era neppure sulla carta. A lungo fu ignorato pure dalla memoria ebraica. Per molti era millantato credito. E per le donne un disonore. Lidia Beccarla Rolfi non ricorda di avervi mai visto la luna, è sempre inverno nei lager, nebbioso, grigio. Ma il lago è minuscolo, e da Fürstenberg le mura si vedevano, le colonne di lavoro cinque per cinque, il fumo del forno crematorio a ciclo continuo, e si potevano anzi udire le urla delle kapò, le scudisciate. Molti del resto ci lavoravano, venendo in bicicletta o in barca dal paesino ordinato col campanile a guglia. La Croce Rossa entrava. E quando la guerra fu perduta Siemens pagò le deportate, alcune, quelle dei registri.
“Le internate che non erano buone per la fabbrica, e non erano in castigo nella Scheisskolonne, spalavano sabbia, in cerchio, da sinistra a destra, ognuna spalava il mucchio della vicina. Le segretarie, le dottoresse, le infermiere nascondevano a volte le prescelte per la liquidazione. Questo avveniva a danno di altre internate, i totali dovevano quadrare. Ma l’umanità soverchiava le teste di morto. Geneviève de Gaulle, una bella ragazza arrestata con le amiche al caffè a vent’anni, vi sopravvisse con le preghiere e l’amore per la Madonna. Germaine Tillion, che vi perse la madre, la scrittrice Émilie, uccisa col gas alla vigilia della liberazione, per essere stata denunciata da un abate collaborazionista, ne fece la parodia offenbachiana in “Il Verfügbahr agli Inferi”, ai margini di un’“Imitazione di Cristo” regalatagli dal cappellano, e su ritagli di carta recuperati dalla rete interna di resistenza, scrivendo dentro un cassone nelle lunghe operazioni di carico e scarico dei treni, protetta dalla squadra di lavoro. Il Verfügbahr, detenuto disponibile ai lavori esterni, è nel caso femmina, Nénette, e cerca un campo “con tutti i comfort, acqua, luce, gas, gas soprattutto”. È forte Germaine, allieva di Mauss e Massignon, che a Yacef Saadi e tutto l’Fln imporrà nel 1957 a Algeri il blocco degli attentati contro i civili, e tradita dai generali francesi si rifarà con de Gaulle, dal quale otterrà il perdono dei terroristi algerini, e ora dell’Oas.
“Margarete Buber Neumann era stata isolata dalle politiche per il suo comunismo. Dapprima dalle stesse internate comuniste, le quali la dichiararono traditrice per il motivo che diffondeva menzogne sulla Siberia, e di conseguenza da tutte le politiche, per l’ascendente che le comuniste avevano sulle altre. Eccetto che da Milena. Milena di Praga: così Milena Jesenskà le si presentò, giornalista, comunista, destinataria di tante lettere di Kafka, fra le più fantasiose lettere d’amore passate agli archivi. Milena chiese a Grete se era vero che i sovietici avevano consegnato a Hitler gli antinazisti rifugiati a Mosca, e le due donne divennero amiche. Per Milena Grete era una Madonnina di campagna, che ama la vita per trasporto naturale. Per Grete Milena era la tenerezza femminile unita a un’energia tipicamente mascolina. Milena, appena uscita dal liceo femminile Minerva a Praga, sedeva intrepida al caffè Arco, ritrovo dei letterati germanizzanti, baffuti, gnoccoloni, e presto se ne fuggirà sola a Vienna. Non femminile, il cappello portava da uomo, ma presto si sposerà. Grete e Milena progettavano a guerra finita un libro, “L’era dei campi di concentramento”, di Stalin e di Hitler. Ma Milena, il fuoco vivo di Kafka, morì prima.
Ambra Laurenzi, Ravensbrück, il lager delle donne, Punto Marte, ill., pp. 120 € 26 

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