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domenica 15 maggio 2016

Perché avere paura della fine

Una meditazione sulla morte – l’innominata, anche da Andrea Tagliapietra nella lunga postfazione. Sulla “fine di tutte le cose in quanto realtà temporali e come oggetti di possibile esperienza”. Il tempo non finisce nell’eternità, semmai si perpetua - della kantiana immortalità la migliore sintesi è di Tolstòj: “Tutti noi (uomini e animali) vivremo in un principio (ragione, amore), l’essenza e il fine del quale costituisce per noi un mistero”. .
In parallelo, è la “fine del mondo”, psicosi millenaristica. Che Kant trancia con la sua sottile ironia: perché il mondo si aspetta sempre una fine del mondo. Non si aspetta, teme. “La ragione ha anche i suoi misteri”, concede. Ma perché vivere col senso della fine, e della fine come una condanna? Sottilmente saldo, sulla linea della “Religione entro i limiti della sola ragione”, di cui il breve saggio è una prosecuzione: ancorato alla vita sovrasensibile – all’aldilà.
Le più pagine deve però spendere per giustificare l’“Apocalisse”, la fine delle fini e la minaccia delle minacce. L’“Apocalisse” non vuole dire, argomenta, ciò che dice, sarebbe irragionevole: “È una contraddizione comandare a qualcuno non solo di fare qualcosa, ma anche comandargli di farlo volentieri”. Anzi, di questo fa merito ai Vangeli: “Il cristianesimo, oltre al grande rispetto che infonde irresistibilmente la santità delle sue leggi, ha in sé anche qualcosa di amabile”.
Qui l’argomentazione è meno vispa, Kant torna ai lunghi incisi e alle subordinate. Ma è ben vero che il sovrasensibile non ci può essere ostile – il sovrasensibile non siamo noi?
Immanuel Kant, La fine di tutte le cose, Bollati Boringhieri, pp. 125 € 7

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