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martedì 5 luglio 2016

Il mercato globale è di Marx

Vacca, ora a capo della Fondazione Gramsci, “salva” Marx attraverso Gramsci. Che per la verità non è marxiano, non nella tipologia della ricerca. A meno che entrambi non siano recuperati nella personalità. Che è liberale. Non cioè ideologico e ideologizzante. Del resto, quello che Vacca propone è di recuperare con Marx una migliore lettura della globalizzazione. Questo è ambizioso, ma di Marx bisogna riparlare, è vero.
Marx è seppellito sotto il marxismo-leninismo, settant’anni non sono passati invano. Tutto Marx vi è seppellito, compresa l’edizione italiana delle opere, che ripete quella sovietica. Nessuna rilettura dopo la caduta del sovietismo (che si diceva marx-leninismo, per chi non lo ricordasse), ormai sono quasi trent’anni. Anche se il vero Marx non c’entrava nulla con l’Urss.
Marx è molte cose. Filosofo, storico, scrittore, polemista, uomo di partito soprattutto, molto attivo e fazioso, che ogni avversario, com’è caratteristico della vita dei partiti, puntava a liquidare. Politicamente era un liberale socialista. Che per distinguersi elaborò un socialismo “scientifico” al posto di quello “utopistico”, il comunismo. Ma indagava i fenomeni, economici e politici, compresi l’imperialismo e lo sfruttamento del lavoro, con animo sgombro.
Rileggendolo attraverso molti scritti, le corrispondenze giornalistiche, le opere storiche, le prime opere filosofiche, e in parte lo stesso “Capitale”, sarebbe un ottimo pensatore libero del mercato. Libero cioè dal pregiudizio mercatista, che tanti danni ci sta infliggendo, grazie a un’opinione miserabilmente corriva – tanto più se non assoldata: nell’impresa, che nessuno ha celebrato più di lui, pulsa la vita.
In un certo senso Vacca ha torto, molto Marx si cita ancora. Ma, è vero, senza leggerlo. Una colonna emergerebbe – tralasciando la sua attività politica dopo la delusione del Quarantotto – liberale. Non del tipo romantico, di quello realista, dopo Machiavelli e Hobbes, che si occupano delle condizioni reali della libertà.
Marx era e rimase un borghese, il diavolo ne avrà preso possesso, anche quando dalla rivoluzione passò al materialismo e al proletariato. Fu protagonista del Quarantotto, col suo giornale, la “Neue Rheinische Zeitung”, sostenendo la guerra tedesca contro la Russia, la Danimarca, e i polacchi austriaci. Compagno e mallevadore, già autore a ragione celebrato del “Lohengrin”, quel Wagner che proclamava “il tedesco è conservatore”, e “solo l’assolutismo è”, grazie a Dio, “tedesco”. Marx  nasce romantico, e per questo, per farsi perdonare, esagererà nella critica: il suo borghese sta tra il romantico e il filisteo, che è  il borghese non romantico. Poi fu un emigrato. Arrivò al socialismo critico non dai bisogni del proletariato, che non conosceva, ma da se stesso, giovane, tedesco, intellettuale del Marzo ’48, eretico per esigenze di ruolo, il condottiero che, aperto un varco, ci erige sopra il suo castello, da hegeliano. E da hegeliano rovesciato il castello lo fa al quadrato. Che non è apostasia, non c’era il marxismo all’epoca, ma un modo d’essere, non antipatico.
Marx sarebbe stato in guerra coi suoi esegeti - li avrebbe spernacchiati, usava così: lui non ha colpa del chiacchiericcio che lo ha seppellito, parlava e scriveva diretto. È Cristo, anche se non lo sapeva, con la barba, evangelico – se era ebreo, s’è convertito: per il dovere del paradiso in terra, della giustizia. Un Cristo laico, per la fregnaccia del Diamat. La classe resta vaga, su cui ha scritto migliaia di pagine, ma non sarà una goliardata? Marx non ha una teoria politica.
Molta politica del resto è retorica, un bel dire: Marx lo scoprì di Machiavelli, che riscriveva Sallustio, “La congiura di Catilina”, o Tacito, che rifece Sallustio.
Si vuole Marx economista e agitatore e non filosofo. E invece lo è, sotto forma di Heidegger, il primo marxista: i tedeschi della rivoluzione conservatrice, che Marx abominavano, se ne sono appropriati i criteri e gli obiettivi, anche se solo in funzione antiliberale. Marx fu economista fantasioso, essendo autodidatta, mentre fu politico mediocre - litigioso, invidioso, e inefficace. Marx del resto è Napoleone, seppure con la ghigliottina di Robespierre. Pensa come Napoleone più che come Hegel: semplifica la storia perché vuole farsene una. Rilancia, sul supporto di Hegel e della storia rivelazione, l’unicità della Rivoluzione francese nel senso della compattezza, e anzi della monoliticità. Che è come la Rivoluzione si presentò nel mondo, ma questo a opera di Napoleone, della conquista napoleonica. La Rivoluzione fu episodica, si sa, e frammentata: mozioni confuse, assemblee vaganti, strane peripezie dei protagonisti, che sono tanti e nessuno, la violenza della plebe a Parigi, il silenzio del popolo in Francia, le restaurazioni. Ci furono semmai tante rivoluzioni, insieme e in successione. Napoleone ne fissò il nome, che non vuole dire nulla.
I Marx erano, e sono, una famiglia nobile dell’ortodossia ebraica. Nel ’48 Marx ebbe a compagna di rivoluzione, con Wagner, Malwida von Meysenburg, benché già matura. Nei gironi di Dante starebbe a uno superiore, grande la barba, segno di saggezza, e il carico di gloria, ma assiderato nel cuore e le membra per l’errore di giudizio. Per avere congelato il lavoro, la più democratica delle passioni. Mentre l’economia che realizza le condizioni da lui poste per il comunismo, quella yankee, ne è immune, e anzi vaccinata.
Sarà come dice Berlin, che “Marx ha diviso l’eredità, il capitale ha lasciato all’Ovest, all’Est il Manifesto”. È vero che il lavoro è semplice, pochi  moduli ricorrenti, la competizione, la fede, la cura, la stanchezza, più frequente che non. È la vita al suo minimo, la sopravvivenza trasferita dalla savana all’aria condizionata, con la busta paga e la pensione, per questo il lavoro non ha buona fama. Ma è il proprio dell’uomo, un atto di fede, ogni mattina, oggi che l’economia è monetaria e bisogna fare soldi, e anche prima, ogni mattina l’applicazione costante a qualcosa di nuovo, sia pure ripetitivo senza residui come il moto perpetuo, un’eterna pedalata. Si è sempre autocritici, quindi anche del lavoro. Ma è parte del lavoro.
Marx è simpatico. Benché abbia scelto Hegel. Non aveva alternativa, l’altra essendo Fichte  - cattivo carattere, l’inventore della nazione, dei primati e dello Stato nazionale chiuso, anzi dello “Stato economico chiuso”, l’opera che modellò il socialismo e più non si pubblica: la libertà è la sicurezza fisica e materiale, la concorrenza fa male. Hegel è altra razza. Marx non parlava con Dio, oppure sì ma non da beghino: beveva, s’infatuava, s’indebitava. Hegel è un pietista rifatto illuminista. Che incrocio, la ricerca di Dio, o anima del mondo, calata nella filosofia per despoti.
Se Hegel fosse stato poeta sarebbe diventato un piccolo Hölderlin, pazzo. Avendo incontrato Napoleone per strada, ne assunse invece la ragione pensando di domarla. Marx è caduto nella rete, lui che non aveva anima né corpo metafisico. Era fatale: la filosofia illuminista, per quanto laica e scientifica, non può non affascinare i duri della storia. Ma non nutre la rivoluzione - anche in Francia, nutrì Napoleone. Oppure sì, nutre la rivoluzione ma nel senso del trickstar beffardo, per frantumarla.
C’era questo antefatto quando lo storia idealista sancì i primati, confondendo la tradizione e ridicolizzando la ragione. C’è ancora chi imputa le guerre ai capitalisti avidi di mercati e materie prime, e le rivoluzioni alla classe operaia, ma per un difetto di vista. Marx è comunque morto cadendo nel bolscevismo, lui che non s’era mai nascosto le formidabili capacità mimetiche della borghesia. Marx non se n’intende, il denaro lo concepì da nobiluomo estenuato, sprezzante - Marx è uno snob, da vero liberale, incorreggibile. E c’è questa cosa da rivedere, anche se la storia latita, gli studi storici: del nazismo che si voleva comunismo, non fosse stato per i “sottouomini mongolici”, gli slavi, che gli avevano rubato l’idea.
Giuseppe Vacca, Quel che resta di Marx, Salerno, pp. 89 € 8,90

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