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sabato 9 luglio 2016

Chi sa dov’è la Libia alzi la mano

Così vicini, e così lontani. Dalla primissima guerra di Libia, 1911, all’epilogo per più aspetti tragico di questi ultimi anni. Con i fanti italiani alla prima pagina che sbarcano a Tripoli l’11 ottobre 1911 bardati da inverno, proteggendosi dietro cumuli di sacchi di sabbia, per una guerra di trincea. Fino all’intervento militare che si voleva qualche mese per liberare la Libia – la Libia, che misura cinque o sei volte l’Italia?
La guerra stessa del 1911, che si volle di conquista e quindi una passeggiata in terra nullius, portata a termine ufficialmente in un anno, durerà invece venti anni, almeno. Una “conquista” gloriosa peraltro di cui l’Italia si è dimenticata: il centenario, cinque anni fa, è passato inosservato, se non per osannare il disastroso, sotto tutti i punti di vista, rovesciamento di Gheddafi. Una ignoranza di cui facciamo ancora fatica a renderci conto, benché ci sia costata così tanto – grazie da ultimo al bravissimo Satkozy, che invece, col suo personale consigliere Lévy, sapeva bene cosa faceva.
L’Italia è distratta. Il caso è famoso di Ardito Desio, per altri versi geologo e esploratore di meritata fama, che non trovò in Libia il petrolio, dove è quasi di superficie, L’Italia in Libia sarà stata il lungomare Italo Balbo, l’unico ornamento di Tripoli fino a Gheddafi, 1970 e oltre, con la piazza del Duomo e i portici antipioggia che i coloni emiliani non evitarono di costruirsi, anche se a Tripoli piove poco. La “tradizione e modernità” di un fotoreportage del 1965 sono ancora quelle del 1939.
L’occupazione della Libia fu peraltro una mezza catastrofe, per loro e per noi. Una guerra combattuta contro l’occupante turco riuscì a mobilitare contro l’Italia lo spento “nazionalismo” arabo, il ribellismo beduino, tribale. L’Italia di Giolitti vi inventò le deportazioni (almeno cinquemila persone, madri e mogli comprese, con i figli, furono mandate nelle “isole”, Ustica, Favignana, Tremiti, Ponza) e i bombardamenti aerei. Quella di Mussolini e Graziani i campi di concentramento e lo sterminio, per fame e per esecuzioni di massa: trecentomila morti tra le due guerre, su una popolazione di un milione, un milione e mezzo, di persone – che se anche fossero trentamila morti non cambierebbe. 
Varvelli, esperto di terrorismo all’Ispi, l’istituto milanese di Politica Internazionale, e specialista della Libia, si limita a poche didascalie. L’impressione favorendo di aver tralasciato l’essenziale. Per esempio di Gheddafi, su cui metà delle foto convergono. Anche qui, che ne sappiamo noi di Gheddafi? Con cui Moro neghittoso non volle contatti (perché l’America non li voleva), costringendolo quasi, a dieci mesi dalla presa del potere, alla cacciata degli italiani in massa – dieci mesi passati nella vana attesa di un cenno, pure tanto sollecitato, un cenno soltanto, una parola, da Roma. Che Nasser, l’idolo di Gheddafi in quanto leader del panarabismo, prestò chiamò “il Pazzo”. Che, fallita l’utopia panaraba, Gheddafi fu finanziatore e fornitore del terrorismo in tutta Europa, per esempio dell’Ira contro i britannici, e compresi gli attentati a Fiumicino. Che fece guadagnare all’Italia cifre enormi, molto di più di quanto l’Italietta vi aveva investito per la “conquista”. Che ha arricchito tutti i libici, non solo i ricchi e i capitribù, ha creato l’assistenza sanitaria e le pensioni, e a meno della democrazia aveva messo in piedi, caso raro nel mondo arabo, un Stato quasi moderno.
Arturo Varvelli, a cura di, La Libia e l’Italia, Edizioni del Capricorno-Qn-La Nazione,  pp. 141, ill. € 9,90

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