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martedì 29 novembre 2016

Il muro più solido è culturale

Una testimonianza d’affetto per un tesoro che si riteneva perduto, e di orgoglio dell’antichista emerito per il lavoro di una vita. Veyne ha recuperato i materiali di altre pubblicazioni su Palmira cui aveva contribuito negli anni per rendere questa testimonianza nel momento, a fine 2015, in cui sembrava che il sito stese per essere distrutto dall’Is. “Storia di un tesoro in pericolo” è il sottotiolo della traduzione – era “Il tesoro insostituibile” nell’originale a fine 2015 – perché intanto la città è stata liberata. D’altra parte, se i templi non sono stati distrutti, il vecchio curatore, l’archeologo Khaled Al-Assad, è stato giustiziato coi suoi soliti metodi dall’Is, per essere “interessato agli idoli”, e numerosi manufatti minori distrutti o dispersi.
Palmira è uno dei siti antichi “più sontuosi”, con Pompei e Efeso. Ma è anche un’eccezione: “Nell’impero romano, o piuttosto greco-romano, tutto era uniforme, architettura, abitazione, lingue sc ritte e scritture, abbigliamento, valori, autori classici e religiosità, dalla Scozia al Reno, al Danubio, all’Eufrate e al Sahara, almeno nella buona società”. Palmira era anch’essa una città civile, e di cultura, ma di un’altra. Mediava commercialmente il mondo orientale, attraverso la via della Seta, delle seterie e delle spezie, e ne recepiva le forme di culto e d’arte. Ascese per questo a rapida fama agli albori della “cultura delle rovine”, sul suo nome Hölderlin fantasticò, e poi Baudelaire.
La pubblicazione si segnala per le ottime foto del sito. E per l’aneddotica di cui Veyne, antichista, egli stesso già in età, specialista di Roma, farcisce l’illustrazione, sui commerci,  le abitudini, culinarie, suntuarie, ludiche, gli stili di vita, di tutto dando una dimensione rapportabile al concreto, all’oggi. Insieme con la storia della regina Zenobia, che disegnò la bipartizione dell’impero, d’Occidente e d’Oriente, e ambì a farsi imperatrice a Roma.
Il commercio della seta – ma anche delle spezie – si faceva con ricarichi enormi, “del decuplo e anche del centuplo”:  “Un terzo di chilo di seta greggia della Cina si vendeva per mille dozzine d’uova o seimila tagli di capelli, o per sedici mesi di salario di un operaio agricolo, indipendentemente dalla sua alimentazione”. La società era “da Terzo mondo”, lo scarto era incalcolabile “tra una povertà di massa e enormi fortune, fonti di autorità e di rispetto”. La città sola contava, la campagna era miserabile. E la città era piccola, quanto bastava ai ricchi padroni delle  terre e agli speculatori per farsi servire da professionisti, artigiani, negozianti, schiavi: “Una società non poteva sopravvivere se i tre quarti dei suoi membri non lavoravano la terra per nutrire tutti ”. Roma era un’eccezione: “Una città non aveva più di un chilometro di diametro (o la metà, più raramente il doppio), e ancora, una buona parte di questa superficie era occupata dagli edifici pubblici”. E poteva solo sorgere in zona irrigua: almeno 200 mm. d’acqua piovana l’anno sono necessari per consentire l’agricoltura e la pastorizia. Era un mondo molto connesso: a Roma si sapeva della grande Muraglia, ci sono viaggiatori cinesi che raccontano di Palmira e altri luoghi. Si parlava ogni lingua, ma la lingua franca era l’aramaico. Palmira è differente da ogni altra città dell’Impero anche perché “è, con Edessa, la sola città in cui il dialetto orientale sia rimasto una lingua ufficiale”.
I muri di cui si vagheggia sono evidentemente più solidi se culturali. Meglio se porosi, ammonisce l’ottantaseienne storico, si evita la solitudine, si moltiplicano le vite: “Ostinarsi a conoscere una sola cultura, la propria, significa condannarsi a vivere una vita soltanto”. Il nazionalismo culturale è del resto acquisizione recente, dell’Ottocento imperialista.
Paul Veyne, Palmira, Garzanti, pp. 104, ill. € 15

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