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mercoledì 26 aprile 2017

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (324)

Giuseppe Leuzzi

Un calcio nel sedere, non alla Sicilia, ma al racconto della Sicilia, è il “Non c’è più la Sicilia di una volta”, di Gaetano Savatteri.  Un calcio che gli stessi siciliani, questo Savatteri  omette, soprattutto si danno, compiaciuti.
Che cosa (non) sarebbe stata la Sicilia senza l’Italia?

Si scopre, perché le Ferrovie ci hanno impiantato un museo, che Pietrarsa, alle porte di Napoli, è stata la prima fabbrica di treni del’Europa, e una delle più attive fino all’unità d’Italia, e dopo. Il 3 ottobre 1839 si inaugurava la Napoli-Portici, la prima ferrovia della penisola. A Pietrarsa, al km. 5,839 della ferrovia, dieci anni dopo si inaugurava un Reale opificio siderurgico e pirotecnico. Che dopo dieci anni, poco più, con l’unità, chiudeva.
Qualche ano dopo l’unificazione lo stabilimento di Pietrarsa fu riaperto come officina di riparazioni. Per poco: era già il solito Sud che vuole qualcosa.

Media mobilitati, riviste, inserti culturali, manifesti. Poi, dopo il flop, niente: nemmeno una critica un’autocritica. Nemmeno uno sberleffo, silenzio: “Tempo di libri” non s’è mai fatta a Milano.  Milano non ci ha sommersi per un anno con la sfida a Torino sulla fiera dei libri.

Milano è – era – “città chiusa”. Savinio l’ha conosciuta “chiusa”: “La città chiusa di Milano io la ricordo ancora”, scrive nel 1944 in “Ascolto il tuo cuore, città”, il suo omaggio alla città lombarda: “Era tra il 1907 e il 1910. Momento di stasi assoluta del suo massimo splendore”. In cui non una virgola di poesia la smuoveva.
Per civiltà “chiusa” – “la sola forma di civiltà che m’interessi” – il tardigrado Savinio intende una “civiltà molto matura e conchiusa in sé che non aspetta più nulla dall’esterno”.

Passata l’inchiesta Consip da Napoli a Roma si scopre che è avventata e artefatta.  Si scopre senza difficoltà, il trucco era evidente. Che cosa spinge Napoli a essere così vispa e spensierata?
Che cosa spinge i giudici e gli ufficiali dei CC di Napoli a essere così superficiali e aggressivi? Non i lazzari o i camorristi: la parte nobile della città. Impunemente, è vero, ma questo basta?

Non è la prima volta che giudici a Carabinieri napoletani montano scandali e addomesticano prove. Successe nel 2006, per dire un caso celebre recente, con la Juventus: intercettazioni selezionate e montate, indiscrezioni pilotate, e poi un processo che la giudice cui toccava si rifiutò di giudicare, talmente la imbarazzava.
Allora la spensieratezza trovò l’interesse degli Agnelli di sbarazzarsi di manager che temevano. Con la Consip ha trovato giudici e generali dei Carabinieri decisi a difendersi. C’è un che di suicidario in questa beata incoscienza.

Il manicomio è al Sud
Alda Merini torna alla poesia dopo un’infelice esperienza matrimoniale al Sud, col poeta tarantino Michele Pierri. Osteggiata dalla famiglia di lui. Al punto da essere internata in manicomio. Da dove riesce a sfuggire e tornare a Milano.
È la vulgata della poetessa milanese, falsa. E non si capisce perché. Complice, seppure titubante, la stessa Merini. Che invece in quella esperienza, peratro da lei fortemente voluta e quasi imposta, ritrovò equilibrio e creatività.
Merini sposò Pierri a Taranto, in chiesa, il 6 ottobre 1984. Lui aveva 85 anni, primario chirurgo e direttore sanitario in pensione dell’ospedale Ss .ma Annunziata di Taranto, vedovo con dieci figli, lei 53. Un matrimonio da lei assolutamente voluto, dopo quattro anni di corteggiamento, con molte pressanti lettere e molte lunghe interurbane a carico del destinatario – di cui è testimone, tra gli altri, Angelo Carrieri che ne ha scritto, il futuro testimone in chiesa delle nozze. Vivendo ancora, agli inizi del rapporto con Pierri, suo marito Ettore Carniti, benché già gravemente infermo, lei aveva scritto una supplica al papa (un Giovanni Paolo II che s’immagina sbalordito) per chiedere una speciale dispensa al secondo matrimonio.
Pierri e Merini si erano conosciuti per il comune interesse alla poesia, che entrambi praticavano. A un evento promosso nel 1981 a Milano da Giacinto Spagnoletti, un tarantino da tempo attivo nella capitale lombarda. Pierri resistette a lungo alle insistenze di Merini. Convincendosene alla fine come  un espediente per ridare equilibrio mentale e forza di volontà a una poetessa di cui aveva grande considerazione. L’equilibrio e la voglia perduti nei quindici anni di internamento a Milano, al manicomio “Paolo Pini”.
Pierri non era nessuno. Era un medico napoletano. Nipote e allievo di Sabatino Moscati, il medico poi beatificato. Si era trasferito a Taranto dopo la laurea e la prima pratica per matrimonio -  con Aminta Baffi. All’ospedale di Taranto aveva esercitato come chirurgo, e poi come primario. Era stato in carcere per antifascismo. Era poeta di ispirazione religiosa, apprezzato da Pasolini (ne scrisse nel saggio in cui censiva anche Ada Merini), Ungaretti, Caproni, Betocchi, Maria Corti.
Molto in realtà Alda Merini deve agli otto anni di esperienza tarantina, quattro di corteggiamento e quattro di matrimonio. Lo stesso rapporto poi proficuo con Maria Corti fu avviato da quello con Pierri, che la Corti frequentava dagli anni 1950, quando era docente all’università di Lecce. Fu a Taranto che nel marzo 1983, un anno e mezzo prima del matrimonio, Merini fu riedita, con la raccolta “Le satire della Ripa”, pubblicata per iniziativa di Giulio De Mitri, un artista tarantino amico di Pierri. Fu poi, rincuorata da questa pubblicazione, che Merini avviò “Il diario di una diversa”, che sarà stampato nel 1986, con la mediazione di Spagnoletti. Mentre curava la riedizione (di fatto un a riscrittura) di “La terra santa”, l’opera che l’aveva segnalata giovanissima, pubblicata da Scheiwiler. E scriveva “La gazza ladra”, “Vuoto d’amore”, componimenti vari che confluiranno in altre raccolte, “Delirio amoroso” eccetera.
Merini non fu mai ricoverata, da nessuno, in manicomio a Taranto, come ha raccontato, o le hanno fatto raccontare. A Taranto non esisteva un manicomio, né nelle vicinanze. Fu assistita una diecina di giorni a fine 1987 al reparto Neurologia dell’ospedale di Pierri, per aiutarla nel trauma subito col tracollo fisico del marito. Dagli stessi medici dai quali Pierri l’aveva fatta assistere subito dopo il matrimonio, per ottenerne una sorta di ricostituente certificazione di guarigione. Medici che conoscevano Alda, cioè, e l’apprezzavano. Nell’estate del 1987 Pierri era stato operato per tumore. Dimesso dopo una lunga degenza, era stato ricoverato e operato in fine d’anno una seconda volta – morirà qualche settimana dopo, a gennaio del 1988. Alda, cosciente di non poter essere di aiuto, e in difficoltà lei stessa per la prevedibile morte del marito, dopo il consulto neurologico si era fatta  accompagnare in aereo a Milano dai figli di Pierri.
Lei dirà di essere tornata a Milano perché “malata di nostalgia”. Ma anche, alternativamente, “perché le grandi passioni uccidono”. È comunque a Milano che subirà altri due anni di trattamento psichiatrico, dopo i quindici che vi ha passato in  manicomio, e non a Taranto.
Nessun evento o testimonianza corrobora l’ostilità dei figli di Pierri. A parte le ovvie perplessità e le resistenze al matrimonio tardivo, a 85 anni. Chi frequentava casa Pierri assicura che Merini era trattata sempre con rispetto se non con amorevolezza, malgrado le sue stravaganze. La propria figlia di Alda Merini, Barbara, che era andata a trovarla, testimonia: “Sono rimasta una settimana e sono stata trattata come una regina”.
Il perché della storia falsata è l’antico vezzo di Milano, che Malaparte stigmatizzava - “sempre quelli di su la scaricano sulle spalle di quelli del piano di sotto”?

leuzzi@antiit.eu

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