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sabato 29 aprile 2017

Grande Orecchio Italia

I discorsi privati devono essere considerati come dei pensieri;
è un assioma di cui deve convenire anche la barbarie più detestabile”.
Voltaire, “Il caso de La Barre. Lettera a Cesare Beccaria”.

La polizia moderna non teme le parole, teme i fatti”,
Corrado Alvaro, “Quasi una vita”, p. 53:
Ma anche le parole possono servire. Sono poche
quelle che sfuggono a questo sospetto. Ed è una fama
divulgata ad arte, per dissociare il corpo sociale”.
Dissociare il corpo sociale, bisogna pensarci.



astolfo

“Le chiacchiere uccidono”, dice il papa (Francesco, 16 febbraio 2014). Chi? O non ingrassano? Alcuni evidentemente li uccidono. Come il giudice di Catania che vuole indagare sui salvataggi pilotati dei clandestini in mare. O Renzi padre e figlio. O la squadra di calcio Juventus una diecina d’anni fa. Bersagli studiati e mirati, con fucili a pompa e di precisione, non si intercetta e si chiacchiera tanto per chiacchierare. Molti invece si sono ingrassati, ufficiali e giudici.  
Scopocrazia
Le intercettazioni sono comunque come le cinture in macchina, ci si abitua – il caso di Catania, dei clandestini contrattualizzati, fa scandalo perché si propone all’inverso: non è una polizia o un servizio segreto che si fa sponsorizzare un dossier da un giudice, ma un giudice che pretende di indagare un’ipotesi più che corroborata di crimine, per testimonianze molteplici affidabili. Già tutti si vedono parlare col muso storto, allo stadio, alle Camere, per la strada. Al ristorante mugugnano. E in camera da letto? Probabilmente non hanno attività in camera da letto, tanti trucchi spompano. Perché “siamo un popolo di intercettati”, ammoniva “La stampa” qualche tempo fa, “e anche i dati non smentiscono questa sensazione: sono stati 141 mila i «bersagli» intercettati”.
Sono molti? Non siamo nemmeno sicuri che siano tutti: sono “almeno” 141 mila, quelli censiti, e fatturati debitamente. L’impressione e le indiscrezioni dicono che sono molti di più. I “bersagli” ufficiali, come li dice “La Stampa”, sono in aumento comunque ogni anno, del 20 e anche del 40 per cento.
Si può non farsene scandalo, considerando la diffusione del fenomeno: è la stagione del Grande Orecchio. Si sa che tutti spiano tutti in rete, ufficialmente. Gli Usa intercettano tutte le comunicazioni di nemici e alleati. Gli europei si intercettano a vicenda. Qualsiasi blogger sa – vede dalle statistiche google per esempio, segnate in verde sempre più scuro - le sue elucubrazioni “intercettate” da ignoti, con spiegamento di orecchi: non il lettore cui ambisce, ma agenzie specializzate, che procedono occasionalmente “a strascico”, negli Usa, in Russia, in Israele, verde scuro, poco più chiaro in Cina e in Germania. – a che fine non si sa. L’intercettazione, audio e video, è “normale”, e quasi fine a se stessa: la scopomania eretta a scopolatria, e a scopocrazia.
Le intercettazioni sono anche modello e stile di scrittura. Della parte buona, alta (informativa, di richiamo) dei giornali: politica, cronaca, economia, sport. E, per chi ancora legge, di una parte cospicua della saggistica e della narrativa: la storia politica, la morale (la filosofia), la giustizia, il giallo (politico, economico, sociale, mafioso-noir, giudiziario-procedurale). I dialoghi di più di un giallo sono calchi delle intercettazioni - lo stile questurino. Per uno scrupolo di realismo, e d’immediatezza dell’espressione. Ma anche – facendolo sapere al lettore – per stimolarne la curiosità feticista. Il voyeurismo non è feticismo e lo è: è adorare la mutanda sporca.

Le intercettazioni sono la vecchia lettera anonima. Sono pubbliche, supportate dalla registrazioni. Non sempre, solitamente anzi sono trascrizioni, passi scelti e interpretati, di cui è impossibile ricostruire il contesto e verificare la rispondenza con l’originale, producendosi migliaia di ore di ascolto. Ma sono selettive e mirate, proprio come le lettere anonime, in forma di anticipazioni, indiscrezioni, linee interpretative, pooling di notizie. O allora sono piani segreti di entità segrete. Roba da 007, di autore autorevole anche se anonimo. E, sceneggiati convenientemente, secondo un disegno, con ruoli fissati, senza possibilità d’improvvisazione. I cronisti giudiziari, che grazie alle intercettazioni sono giunti a monopolizzare i giornali, chi l’avrebbe detto, erano poco sopra il redattore alle lettere, non sono felici.
L'occhio di Dio
C’era l’occhio di Dio, un po’ massonico. O “Dio ti guarda”, nei tribunali e nei cessi. Per dire che bisogna sempre comportarsi “come se”, essere perfetti e precisi, non lasciarsi andare, nell’intimità o nella lotta quotidiana, sempre gli stessi, sempre all’altezza, puliti e propri. E dunque cosa cambiano le intercettazioni? Se non fossero un’arte, e un mercato. Non sono un esame di coscienza.
L’intercettazione non è quella cosa semplice e chiara che i media fanno credere. E problemi robusti pone, istituzionali e etici. Contro gli abusi, all’insegna fraudolenta della trasparenza. La “prova regina” è la più falsificabile. L’intercettazione in sé, come viene registrata e trascritta, peggio se sintetizzata e non nella sua estensione temporale, interpretata e spiegata nelle sottigliezze, le allusioni, le frasi non completate. E i toni: sonori, stilistici, abituali. La prova regina è uno “ghiommero”, un complesso intricato.  
C’è poi il complesso dell’intercettatore, più intricato ancora.
Le intercettazioni non si sa quando né perché cominciano. È lecito ipotizzare, sulla base di fatti provati, che un lungo ascolto, a opera di un ufficiale di polizia (ma spesso dei Carabinieri e della Guardia di Finanza più che della Polizia propriamente detta, che ha più da lavorare) in carriera venga messo a disposizione di una Procura interessata.
Intercettazioni non richieste dai giudici, autorizzate ex post, emerse per caso, per inavvertenza, non sono infrequenti, e sono anzi la norma. Anche per spocchia, nella presunzione certa dell’impunità. È il secondo aspetto del fenomeno: l’intercettatore non lavora per caso ma a un progetto. Per la forza del ricatto?
Molte intercettazioni si fanno a solo scopo scandalistico e non di giustizia. Ne sono emerse a carico di Anna Maria Tarantola quando era alla Banca d’Italia, senza nessuna ipotesi di reato. Di Bertolaso prima del terremoto dell’Aquila, quando parlava con i membri della commissione Grandi Rischi, sempre senza ipotesi di reato. Di Moggi per anni, il dg della Juventus, a opera del tenente colonnello dei CC Auricchio. Di Buffon a opera della Guardia di Finanza. Sempre senza ipotesi di reato.
Non si può fare un regolamento delle intercettazioni: la questione è all’ordine del giorno da una ventina d’anni, senza esito possibile. E nemmeno degli appalti delle intercettazioni. Le quali sono un’attività ora completamente “esternalizzata”, in outsourcing o service. Una parte irrisoria delle intercettazioni viene effettuata direttamente dalle forze di polizia. Quello delle intercettazioni è ormai un business, con diecine di aziende operative. Non grande, sui 300 milioni di euro. Ma abbastanza per avere un’associazione di settore, la Iliia. E un paio di migliaia di addetti.

Il regolamento delle intercettazioni non si può fare anche per questo motivo: che si regolerebbero gli appalti, che ora sono invece discrezionali per ogni Procura. Qualche volta anche con gara, invece dell’affidamento diretto, ma evidentemente addomesticati. Il costo infatti può variare: a parità di difficoltà, capita che da una parte si spende 3 e da un’altra si spende 15.  Le intercettazioni sono un veicolo della corruzione a palazzo di Giustizia.
Detto questo, si è detto tutto: si tratta di spionaggio, che a carico dei liberi cittadini è illegale, e di corruzione. Anche se le Procure della Repubblica non lo sanzionano e anzi se ne giovano. Ma in Italia lo spionaggio, nella forma un tempo del dossier e ora delle intercettazioni, tiene il luogo dell’opinione pubblica, insieme con le testimonianze dei pentiti di mafia e degli imprenditori falliti, e quindi merita parlarne - della corruzione, che dire?
Spionaggio, gossip, privacy
“Quando si potevano fare”. Facendo la cassa per il libro di Peter Szendy, “Intercettare. Estetica dello spionaggio”, libro di difficile reperibilità, la libraia si rabbuia: dà per scontato che ci sia una legge che impedisce le intercettazioni, e se ne rammarica. È una signora informata, solitamente riservata, che nella sua libreria dal nome nobile, “Mondo Operaio”, rende disponibili testi ormai rari di storia della Resistenza, in Italia e nel mondo, da anni con qualche sacrificio (“sopravviviamo con le scuole”), e i tanti libri non di mass market ormai irreperibili altrove. E dunque la malattia è diffusa, lo spionaggio si preferisce alla politica – e a ogni altra cosa, magari, a una passeggiata sui monti, a un buon piatto, o agli stessi affetti: la conoscenza è la passione dominante, ma sotto questo aspetto deviato.
Il processo – presto dimenticato ma quanto urticante - per prossenetismo a Berlusconi, che la libraia non ama, è tutto intercettazioni. Sia l’atto di citazione di 400 pagine inviato al Parlamento dal Procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati e disponibile online, sia i supplementi d’indagine successivi, arrivati direttamente ai giornali a scadenze calibrate. Non ci sono altre prove, né sono state cercate, se non le telefonate di un nugolo di attricette, oggi escort. Non si può concordare dunque con la libraia: le intercettazioni sono sempre in grande spolvero, e sono anzi la prova maestra – in questo come in molti altri processi. Oltre che motivo di diletto o di passione. E fanno l’opinione prima che la giustizia.
Szendy ne cita alcune di rilievo politico: quelle all’Eliseo (a carico del presidente Chirac) e quelle dei servizi segreti di Tony Blair sul segretario dell’Onu Kofi Annan. Ma ogni elenco è necessariamente in difetto, i casi sono tanti – compresi probabilmente i servizi segreti di Cameron su Blair. Come dimenticare il Watergate, che costò la presidenza a Nixon? Ora si dice, si crede fermamente, che Trump ha vinto le elezioni con le intercettazioni di Putin - si crede su input di una spia inglese (pagata dai servizi americani).
In “Segreti e no” Magris fa una garbata divagazione sul segreto, tema di una sua conferenza, intitolata proprio “The secret”. Una conferenza di non si sa quando né dove, un segreto nel segreto dunque. Potremmo ipotizzarla – voluttà del segreto – come discorso di accettazione della nomina a duca di Segunda Mano del regno di Redonda, altra entità segreta, di cui è sovrano lo scrittore spagnolo Xavier Marìas – dopo Almodòvar, Francia Ford Coppola, Pietro Citati, duca di Remonstranza, e prima di Umberto Eco, 
duca dell’Isola del Giorno Prima. Ma è una trattazione seria che lo scrittore triestino fa, sulle virtù del segreto. Al netto degli abusi del potere, il luogo del segreto autoritario, e dei servizi segreti. E contro gli abusi delle intercettazioni e del pettegolezzo, all’insegna fraudolenta della trasparenza.
Contro questi abusi Magris cita il segreto confessionale, la virtù meglio custodita dei sacerdoti, e il “Nuovo Dizionario di teologia morale”, a uso dei confessori, alla voce “Segreto” redatta da Luciano Padovese. In cui, plaude Magris, “si esprime la preoccupazione più viva di tutelare il segreto non quale ineffabile mistero bensì quale difesa della dignità della persona e della sua intimità, della sua verità interiore”. E “si sottolinea come la sofistica crescita tecnologica dei mezzi di comunicazione consenta sempre più inquietanti violazioni dell’elementare vita quotidiana, in una spirale di comunicazione globale che diviene espropriazione della persona, voyeurismo travestito da scienza o da indagine sociologica, di denuncia politica, di gossip culturale”. Con una strana equivalenza-omologazione, tra voyeurismo, politica e gossip.
Szendy, che si definisce filosofo dell’ascolto, dà per universale e dominante la passione delle “grandi orecchie”: “Una sorta di fantasma dell’ascolto si è ormai insediato, radicato tanto nei gesti quotidiani quanto nell’attualità politica”. Finita la Guerra Fredda, che fu il grande business delle spie, e senza più l’incubo nucleare, la voglia d’informazione, magari rivestita di controinformazione, dilaga. Szendy elenca alcuni campi di applicazione privilegiati: l’odio tribale e religioso, la proliferazione di armi nucleari, la criminalità organizzata, il traffico di droga. In Italia si possono aggiungere gli affari e la politica, indiscriminatamente. Tutto, insomma - eccetto, curiosamente, le corna, che ne erano il terreno classico.
L’intercettazione-indiscrezione ha preso a proliferare negli stessi anni, vent’anni fa, in cui la privacy si imponeva. Ma questa come un fatto burocratico, non a protezione della individualità e della libertà. Un esito del leguleismo americano. Che solo produce avvertenza illeggibili, in corpo 6 lunghe sei pagine. Che se anche le leggessimo non le capiremmo. Buone per alimentare le cause degli avvocati a percentuale. E, in Italia, visibilmente una furbata: dichiarare la privacy protetta, di cui invece nessuno si cura, e autorizzare, nelle tante capziose forme ormai di dominio comune, la diffusione dei dati personali dei clienti a fini di marketing, merchandising, fidelizzazione, con un guadagno.
Il Grande Fratello
Oppure, semplicemente, si può dire così: c’è stata un’epoca, tra il 1992 e il 2017, dopo il festival di Mani Pulite, in cui l’Italia molto si divertì. Costituendosi anche comode partigianerie, all’ombra del famoso “resistere, resistere, resistere”, che fu l’urlo di Vittorio Emanuele Orlando (chi era?) e poi della più famosa linea del Piave. Non per il bene pubblico, non necessariamente, né per la verità, ma il divertimento fu assicurato nell’età dell’acquario e del gossip: l’Italia, come sempre vuole, fu la prima e la migliore.
Nelle liste di Genchi, funzionario di polizia di Palermo specialista d’intercettazioni, figurava dieci anni fa un italiano su dieci: tredici milioni di soggetti intestatari di utenze telefoniche, un milione e 160 mila persone “anagrafate”, e 350 milioni di “righe” di traffico telefonico. La spiata fu la passione generale, contro la quale nessuna legge fu mai possibile: si depenalizzò il furto (in azienda), l’aborto, e perfino la buona morte, ma contro lo spionaggio non ci fu niente da fare, mai una maggioranza parlamentare osò contrastarlo.
Il numero delle intercettazioni giudiziarie disposte dieci anni fa era già impressionante: 125 mila, per una spesa di 224 milioni di euro. Non sappiamo per quante ore – molte giornate, a giudicare da quelle che si pubblicano. Contro 20 mila in Francia, appena 5.500 in Gran Bretagna, e solo 1.705 nei terribili Usa della giustizia dominante (i dati comparativi sono del 2005, ma riguardano paesi tutti con popolazione superiore a quella italiana – nel 2005 del resto le intercettazioni erano in Italia già 102 mila). E già quindici anni fa erano considerate poco meno che illegali: nel 2003, dichiarava il Garante della Privacy Francesco Pizzetti, si sono fatte 77.500 intercettazioni ufficiali, in Germania 25 mila, negli Usa 1.442. A un costo, aggiungeva accigliato, di 255 milioni di euro. Cui andrebbe aggiunto il costo delle finte indagini sulla fuga di notizie - e il costo, sostanzioso, della stessa Autorità della Privacy, che evidentemente non protegge nulla.
Impressionante non è il fatto in sé. Contestabile non è l’invadenza, la privacy non è un’esigenza dell’epoca, semmai l’esibizionismo. Come si vede dal fenomeno Facebook, dalla stessa Rete, dalla smania di “partecipare”, in chat e forum: la parte “migliore” della società (bella, o giovane, ricca, colta, intellettuale, potente, o pretendente tale) ama esibirsi invece che nascondersi. Malgrado le tante norme imposte con assurdi regolamenti e costose Autorità, mai il mercato è stato così inflazionato di dati personali, ognuno lo constata ogni giorno, in balia di call center, solleciti mirati, e-mail. Impressionante è la facondia degli italiani al telefono, pur sapendo di essere intercettati. Una voluttà, che talvolta, anzi spesso, diventa vanteria, tutti dicono di essere e fare ben più di quanto possono e perfino vogliono.
Si possono dire anzi le intercettazioni la lingua del secolo. Ogni italiano ne ha fatto in piccolo l’esperienza, negli anni in cui la rete telefonica soffriva di diafonia. Ma l’intercettazione è più di questo atto incidentale, la costrizione ad ascoltare le conversazioni di altri per la sovrapposizione sulla linea principale di una linea secondaria. È un atto volontario, perfino passionale. Ed anche la speranza di essere intercettati. È la parente povera della passione nazionale a sbracarsi in televisione, alla radio, in spiaggia, sul treno, al telefonino sui mezzi pubblici e per strada, dovunque c’è qualcuno che può ascoltare.
Se si esce peraltro dall’intercettazione “tecnica” – audio, video – l’epoca si può dire all’insegna dello spionaggio, cui il pubblico in Italia si adatta, come ogni altro. Il millennio ha debuttato col Grande Fratello che dopo dieci anni continua a dare a cinque-dieci milioni di italiani il frizzo del voyeurismo invisibile nelle stanze segrete degli altri, nel tinello e in camera da letto, se sono giovani e generosi di curve e pettorali. Subito imitato da una messa dozzina di analoghi intrattenimenti. Per migliaia di ore complessive all’anno. Dei cellulari si sa che sono una rete precisa al secondo di ogni nostro spostamento o contatto. Di internet si sa che è un archivio quasi totalitario a carico di ogni navigatore o utente. E in forme anche molto precise, quali le abitudini di lavoro e le specialità, e quelle di lettura, frequentazione, consumo, acquisto, vacanza, insieme con gli spostamenti: Google, You Tube e ogni altro motore di ricerca è un grande orecchio molto sensibile, preciso, dettagliato.
L’antipolitica
Discutibile è la violenza istituzionale. Che attraverso le intercettazioni dilaga senza alcun limite di legge. Anzi facendosi scudo della legge. Qualsiasi maresciallo dei carabinieri o sottufficiale di finanza, qualsiasi ufficiale in carriera, qualsiasi procuratore della Repubblica può distruggere chiunque gli aggrada, senza mai pagarne la colpa. Le intercettazioni non si sa quando né perché cominciano.
Si dice: l’America. L’America le ha usate, produttivamente, contro il crimine, e non c’è bisogno di rifare l’esame. Intanto, le ha usate e le usa con cautela. Con molta cautela, poiché ne autorizza ogni anno in numero dell’ordine delle diecine di magliai, non delle centinaia, anche se la popolazione è sei-sette volte quella italiana. E poi: l’America è l’America.
Nel 1983 Geraldine Ferraro, presidente o vice-presidente della Camera dei Rappresentanti al Congresso Usa,  maturò l’idea di candidarsi alla vicepresidenza degli Stati Uniti l’anno successivo in ticket col democratico di sinistra Walter Mondale. Subito un investigatore fu inviato dal partito Repubblicano a Messina e sui Peloritani, per cercare tra i parenti di Geraldine un qualche mafioso. La famiglia di Geraldine risultava originaria di Marcianise, in provincia di Caserta, ma un suo parente prossimo, pare uno zio, forse materno, risultava nel messinese. O così si premurava di far sapere l’investigatore, anche alla “Gazzetta del Sud”, il quotidiano locale: l’investigatore non si nascondeva, e anzi si premurò di far sapere che era lì per quello.
Non ebbe da faticare molto, si guadagnò la lauta parcella con poco sforzo: tutti furono felici di raccontargli che Geraldine aveva un zio pregiudicato. Che lei non ne sapesse l’esistenza non voleva dire - una lezione per i Carabinieri, che sempre lamentano l’omertà. Lo zio non si trovava, ma neanche questo vuole dire. L’investigatore anti-Ferraro voleva “sapere” tutto, anche se lo zio era fantomatico, o la parentela lo era: sveva il compito d’indagare, disse, su tutto, sulla cartella penale, su quelle fiscali, su quelle mediche, se non aveva barato con le assicurazioni o la sicurezza sociale, se aveva pagato i contributi delle sue colf e baby-sitter, etc. Lo “zio”, semmai prozio, biscugino di quarto o quinto grado, che al meglio era un contadino, negli anni 1920-1940, con la colf, la baby-sitter e i contributi? Non importa, non vuole dire. L’investigatore non si nascondeva, e anzi invitava le confidenze: suo compito non era di accertare le parentele della Ferraro ma di costruire una colpa e un colpevole. Di cui gli sarebbe rimasto da provare se necessario - non lo fu, il ticket Mondale-Ferraro partì battuto dal Reagan bis - un qualche legame con la vice-presidente.
È un metodo più serio o meno serio delle intercettazioni? Benché dichiaratamente di parte, e non a fini di giustizia, è una metodologia più seria, e quindi più equa. È basata su dati di fatto. Mentre le intercettazioni sono la vecchia berlina, il ludibrio. E l’Italia certo non è l’America.
La “patria del diritto” è da tempo la patria dei servizi deviati. Da almeno cinquant’anni, da quando la lotta armata contro il comunismo si trasformò in bega politica quotidiana (la storia della Repubblica non è nel complesso onorevole). Ma ora non ci sono più limiti, neppure politici o di parte.
In politica le intercettazioni sono l’antipolitica. Orwell, che sarà la coscienza europea degli anni 1930-1940, le ha così identificate, le narrazioni russe della diaspora e dell’emigrazione post-1973, oggi dimenticate, lo hanno testimoniato con ampiezza. Si portano casi importanti del contrario, in
cui le intercettazioni hanno avuto un ruolo nella storia. Quelle di Nixon, che portarono allo scandalo Watergate e alla sua decadenza da presidente Usa. O quelle dei servizi segreti, in guerra e in pace. In pace, per esempio, negli ascolti costanti della Stasi nella Germania dell’Est, di cui si è fatto pure un film premiato, “Le vite degli altri” – qui lo spione s’identifica nella sua vittima, ma è un passo falso, la nobilitazione dello spionaggio, che invece è sempre ignobile. Ma non sembrano esempi da imitare. Nella Germania dell’Est la metà della popolazione, vi si diceva, spia l’altra metà (e la sua stessa metà, in realtà), ma ciò non ha impedito al sistema di collassare. E nel caso esemplare di Nixon, che ne sarebbe stato se si fossero intercettati anche i suoi avversari? Queste intercettazioni sono guerre dichiarate e non atti di giustizia. Sono quella forma di Öffentilichkeit o pubblicità di cui i regimi totalitari si fanno schermo – come nel romanzo “1984” di Orwell. Non fece buona esperienza la diplomazia aperta che gli Usa vollero dopo la Grande Guerra. Né la sta facendo Assange con wikileaks: la “pubblicità” è sempre gregaria.
La open diplomacy di Wilson, il presidente americano della prima guerra mondiale, la diplomazia delle carte scoperte, fu solo un accorgimento retorico e anche un trucco, a complemento della politica di potenza, di rapporti regolati dalla potenza e non dal diritto. La Società delle Nazioni che Wilson ha creato e l’Onu che ne ha preso l’eredità, sono un’esperienza modesta, se non nel senso di interinare le decisioni delle grandi potenze, per interessi imperiali. Wikileaks lo ha provato ultimamente nel momento del trionfo stesso della indiscrezione: è stato il migliore servizio reso ai servizi segreti.
Lo spionaggio è di sinistra, la democrazia totalitaria
In Italia due grandi reti d’intercettazioni private si sono manifestate una diecina d’anni fa, oggetto a loro volta d’intercettazioni legali e quindi di processo pubblico: quella Telecom e quella palermitana di Genchi. Anche se con le solite bizzarrie italiane, per cui ogni cosa dev’essere di destra o di sinistra. Quella Telecom, derubricata a reato personale del dirigente Tavaroli, è stata perseguita. Quella palermitana, rubricata di sinistra, è stata invece insabbiata e insomma assolta. Nessun dubbio che entrambe fossero illegali. Ma la passione dello spionaggio libero si vuole di sinistra: come diritto all’informazione, e quindi diritto di libertà. A favore di Genchi sono state tenute manifestazioni pubbliche. Una, a Bologna il 28 marzo 2009, a iniziativa di Beppe Grillo, il moralizzatore, e di Salvatore Borsellino, uno dei fratelli del giudice assassinato dalla mafia in carriera politica a sinistra – mentre il giudice era dichiaratamente di destra. Senza scandalo politico, bisogna dire, perché tutti sanno che le intercettazioni sono la norma, a sinistra e a destra. Ma il fatto è questo: l’intrigo, arma politica caratteristica della destra, è da un quindicennio prerogativa esclusiva degli (ex) comunisti. Ed è fattore non minore della debolezza della politica, o della sfera pubblica (l’opinione pubblica), la quale viene con questo artificio lasciata al mercato – che, senza controlli, come si sa, è ladro e assassino.
Non c’è nulla di male nelle intercettazioni, in teoria. Contro i malviventi possono anzi essere utili: un mondo tutto intercettato renderebbe impossibile il pizzo, e dunque la mafia – appena la richiesta minacciosa è profferita , il malvivente intercettato viene subito reso innocuo, senza obbligare la vittima del ricatto a esporsi con denunce e testimonianze. Non fosse che l’intercettazione è essa stessa strumento di ricatto. Criminale, ma anche politico e giudiziario. Una deriva sconvolgente: che la magistratura possa usare le intercettazioni per doppi e tripli giochi, ricatti e vendette, come avviene. Nell’impunità e senza scandalo, anzi con distinti ruoli di prim’attore.
Perché intercettare è spiare. E il mondo dello spionaggio è orrendo. Una serie di thriller d’autore, da Graham Greene a Le Carré e Sanantonio, lo ha reso appassionante, ma la natura dello spionaggio resta quella che sempre è stata, traditrice. Anche quando è patriottico: la linea di demarcazione resta sottile col malaffare, volendosi la spia un personaggio torbido. Intimamente corrotto. Nell’Urss era detto “il secondo mestiere più antico al mondo”, figlio del primo – la prostituzione.
Lo schema delle intercettazioni è semplice: si parte da un caso giudiziario anonimo, una semplice denuncia per smarrimento di documenti. Si parta da uno dei cinque milioni di denunce che a Napoli non sono ancora prescritte ma non sono state mai aperte. E si indirizzano le indagini sulle persone o gli ambienti (azienda, partito, istituzione) che si vuole colpire. Con abbondanza di intercettazioni telefoniche e ambientali. Ciò avviene solitamente a iniziativa di un magistrato: l’illegalità in Italia si vuole legale. Ma ci sono casi di dossier che si sono trascinati di Procura in Procura, finché non hanno trovato un magistrato interessato. A opera solitamente di carabinieri o finanziari. Non illegali nemmeno questi: sono – sono presentati – come collaterali di altre inchieste. Le intercettazioni hanno soppiantato ogni altra forma d’indagine criminale, e sono largamente preferite dall’apparato repressivo: si fanno a tavolino, con gli straordinari conteggiati, si trascrivono con accortezza, e aiutano la carriera verso i servizi segreti, molto meglio remunerati, nonché dotati di fondi spese. Sanno di Orwell e di Leviatano, ma non importa: la democrazia italiana, ex fascista, ex sovietica, si vuole totalitaria.
La verità che tutti sanno ma non si può dire è che le intercettazioni sono opera il più delle volte di quello che una volta si chiamava sbirro. Che apre, con l’ausilio di una lettera anonima, che più spesso si scrive, o di una “confidenza”, sempre anonima, l’indagine che ha deciso di effettuare. O anche con le famigerate Note di servizio nelle quali un capo stazione può scrivere tutto, senza obblighi di prova. Dopodiché due strade si aprono. O si cerca da un procuratore della Repubblica in sintonia l’autorizzazione alle intercettazioni - per un mese, ma nessuno poi controlla se durano anni com’è l’uso. Oppure l’ufficiale o il sottufficiale procede in autonomia, anche con le intercettazioni, e poi si cerca un procuratore della Repubblica che ne sia ghiotto e le spesi. L’ex ministro socialista Formica, che è stato anche alle Finanze, così lo spiegava a Aldo Cazzullo sul “Corriere della sera” il 30 luglio 2007: “Vige la pratica dell’autorizzazione in bianco: prima si fanno le intercettazioni, poi si riempiono i moduli in base ai nomi e alle circostanze scoperte; formalmente i diritti sono rispettati”.
Era il metodo del Sifar, le cui intercettazioni, seppure a fini eversivi, erano regolari. Che il Sifar le usasse per discriminare la sinistra, mentre è ora la sinistra che se ne avvale contro la destra, non cambia la natura dell’atto. E perpetua le perverse attitudini dell’apparto repressivo. Il fatto che dei ricorrenti “servizi deviati” di un tempo si siano perse le tracce deve solo accrescere l’ansia.
Giravano negli anni Settanta e Ottanta del Novecento in sala stampa alla Camera, a disposizione dei cronisti che ne volessero fare uso, nastri registrati di ministri e banchieri, più spesso con indiscrezioni pecorecce. Ultimamente si conoscono almeno due dossier di grande eco che hanno girato mezza Italia prima di approdare alla Procura compiacente, quello di Moggi e quello di Saccà. Entrambi approdati a Napoli. Quello di Saccà è stato poi archiviato. Quello di Moggi è all’origine dello scandalo Juventus che ha fato epoca. Nel quale qualcuno degli stessi accusati si è riconosciuto, con patteggiamenti e giudizi abbreviati, per una parte minima, per evitare la “sicura condanna” prima ancora del dibattimento. Ma il dossier in sé, benché costruito da un ufficiale dei carabinieri il cui nome è un programma, Auricchio, in un vero processo non servirebbe a nulla: centinaia di migliaia di telefonate scandagliate non provano un solo atto corruttivo, uno scambio, anche solo un’intesa. Hanno però prodotto la condanna, prima del processo, con pene anche molto pesanti, contro alcune squadre di calcio e a vantaggio di altre, contro alcuni dirigenti e arbitri a vantaggio di altri – tra essi un arbitro sicuramente corrotto, per prove evidenti, ma graziato da Auricchio.
Senza contare i danni della selettività, che però è più un questione di giustizia (di giustizia negata o ineguale): l’intercettazione di un solo individuo, anche quando le connessioni lasciano pensare ad altri soggetti di reato. Nelle intercettazioni sul fallito acquisto di Bnl da parte di Unipol, sono state selezionate quelle fra D’Alema e il banchiere Consorte, ma non quelle fra Cossiga e D’Alema. L’intercettazione selettiva va contro i diritti e la legge: se le intercettazioni sono disposte a carico di un’azienda e non delle concorrenti; se delle intercettazioni disposte per una parte del mercato si tiene conto solo di quelle a carico di un’azienda; se delle intercettazioni disposte a carico di un’azienda si trascrive solo una parte.
L’ascolto, insomma, era ed è un potere sempre “deviato”: parziale, non significante (non nel senso della verità), e il più delle volte calunnioso o ricattatorio.
La spirale della paura
L’intercettazione è antica, lo spionaggio si è sempre praticato. La Bibbia ne porterà un centinaio di casi. Sun Tzu, “L’arte della guerra”, ne ha redatto un decalogo nel 500 a.C. la cui tipologia e le definizioni sono già quelle in uso ora, anche nell’età dell’elettronica. È del resto sapienza antica che “anche i muri hanno orecchie”. Szendy espone in dettaglio le tecniche di questo primo manuale dell’arte. Che è poco variata. Soprattutto gli accorgimenti dell’agente doppio o, appunto, dello sbirro.
Se ne è fatta anche la filosofia. E la letteratura. La letteratura va in questo senso costante, dall’orecchio di Dionisio alla “Torre” e altri racconti di Kafka, al “Re in ascolto” di Calvino: non c’è verità nel segreto carpito, è solo un atteggiarsi del potere - sapere per controllare. In filosofia Szendy è di poco aiuto. La sua riflessione è piuttosto sull’ascolto musicale: “Le nozze di Figaro”, “Orfeo e Euridice”, “Il flauto magico”, il “Woyzzeck”, il jazz, e una serie di rappresentazioni, dal frammentario “I segugi” di Sofocle ai film di Brian De Palma e David Lynch, a “La conversazione” di F. F. Coppola. Ma, seppure frammentariamente e nel mezzo della lettura musicale, dà una chiave: il francese ha “ascolto”, écoute, termine più pregnante per tutte le forme di spionaggio. Mentre l’inglese ha overhear, origliare o ascoltare inavvertitamente non visti, pratica che Szendy trova di molti personaggi shakespeariani. Inoltre, dà ottime tracce di lettura: dall’“ecotettonica” del fantascienziato Kircher al “Panopticon” di Bentham (senza dimenticare il tubo d’ascolto di Leibniz al centro della casa), lo sguardo totalitario dell’utilitarismo liberale, che Foucault rilegge a lungo in “Sorvegliare e punire”, e fino a Barthes, che ne tratta sotto il titolo “Ascolto”.
Bentham, nella lettera XXI del “Panopticon”, l’edificio (prigione, casa di correzione, ospedale, scuola, oggi si direbbe il Grande Fratello, o il Truman Show, il film di Jim Carrey) che garantisca una visibilità totale e costante degli occupanti, distingue il suo progetto dall’Orecchio di Dionisio: L’oggetto di quella “trovata” era di sapere cosa dicessero i prigionieri senza che essi lo sospettassero. L’oggetto del principio d’ispezione è esattamente l’opposto: è non solo farli sospettare, ma essere sicuri che qualunque cosa facciano è risaputa, anche se non volessero. L’oggetto del primo caso è scoprire: prevenire quello del secondo. Nel primo caso la persona che detiene l’autorità è una spia, nel secondo un controllore. Uno che decontestualizza, a fini pratici, di giustizia, di ricatto, pedagogico, ai quali il “principio d’ispezione” è inteso - la lettera XXI è dedicata alle scuole.
Bentham, dice l’enciclopedia, “argomentò a favore della libertà personale ed economica, la separazione di stato e chiesa, la libertà di parola, la parità di diritti per le donne, il divorzio, i diritti degli animali, la fine della schiavitù, l’abolizione delle punizioni fisiche, il libero scambio, la difesa dall’usura, restrizioni ai monopoli, tasse di successione, pensioni e assicurazioni sulla salute, creò l'Università di Londra, la prima laica, distinta cioè dalle tradizionali università inglesi, religiose, di Oxford e Cambridge”. E nel mezzo “ideò un nuovo tipo di prigione, che chiamò Panopticon”. Insomma un benefattore dell’umanità, del cui “occhio di Dio” non si può pensare male. Il Panopticon di Bentham è peraltro contemporaneo del Panorama, il diorama cilindrico nel quale il ritrattista inglese Robert Baker esibiva i suoi dipinti, del 1787, alla vigilia della rivoluzione, al culmine dell’illuminismo – o all’inizio della sua deriva positivista, “risolutrice”.
Barthes ne sa naturalmente spiegare la fenomenologia, anche se in il suo saggio “Ascolto”, ora nella raccolta irriverente “L’ovvio e l’ottuso”, Szendy dice “una spirale della paura”: “Mentre per secoli è stato possibile definire l’ascolto come un atto intenzionale di audizione (ascoltare significa voler ascoltare, in modo pienamente cosciente), attualmente gli si riconosce il potere, quasi la funzione, di esplorare terreni sconosciuti”. Come dire, siamo aperti a tutte le sorprese, riservandoci di cogliere fior da fiore: “L’ascolto è stato, per definizione, applicato; oggi gli si chiede piuttosto di lasciar manifestare”. Una riedizione, prosegue Barthes, dell’“ascolto panico”, ma non a fini mistici, bensì di conoscenza applicata. Ancillare, a voler essere espliciti: uno strumento, nel quadro della più vasta strumentazione che è il governo o gestione dell’opinione.
Barthes lo dice strumento di liberazione: “Non c’è più da una parte chi parla, si confida, confessa, e dall’altra chi ascolta, tace, valuta e sanziona”, ma tutti ascoltano e sono ascoltati. Cosa che non è possibile. Il “luccichio” dell’ascolto, che Barthes ipotizza liberato dai suoi antichi “luoghi”, in realtà vale per questi luoghi, “del redento, del discepolo, e del paziente”, tutti in vario modo asserviti, quanto di più lontano dalla liberazione. Al più si passa dai “luoghi di reclusione” o “internati”, le società disciplinari di Foucault, tra Sette e Ottocento, alla contemporanea “società di controllo”, di cui le intercettazioni a fini di normalizzazione sono l’ingrediente principale, spiega Orwell in più punti, segnatamente in “1984” .
Orwell sintomaticamente non esiste in queste celebrazioni dell’“ascolto”: il sovietismo non è esistito, non esiste, le banche dati delle cellule, delle sezioni, delle federazioni, delle direzioni del
Partito, le cistke, assise pubbliche incrociate, e i Morosov, i bambini all’ascolto dei padri.
La felicità di spiare

Presentando l’edizione italiana di Szendy, Marco Filoni, studioso di Kojève e della cultura di destra, blogger de “Il Fatto”, il giornale delle intercettazioni, sancisce anzi d’acchito la felicità dell’“ascolto”: “C’è una sorta di felicità, di piacere immenso, nello spiare”. La arricchisce coi tubi di Leibniz, “quando immaginò, ben prima che Bentham descrivesse il Panopticon, una palazzo dotato di tubi segreti, tali da permettere al padrone di casa di ascoltare tutto quanto veniva detto e fatto tra i suoi servi e suoi ospiti”. E la esemplifica col personaggio di Nabokov nel racconto “Occhio”: “Un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue”. Una felicità poco affrancante. La “verita” delle intercettazioni è nel film “La conversazione”, racconto filosofico di Francis Ford coppola. Il Grande Orecchio Gene Hackmann, tornato a casa dopo una giornata di ascolto e trascrizione, si sgranchisce suonando il sassofono, finché non viene raggiunto da una telefonata in cui gli si fa ascoltare la musica che sta suonando… Questo non si può dire in Italia, dove l’intercettazione è sinonimo di liberazione. Ma allora è da chiedersi da che cosa?
La nota editoriale alla traduzione di Szendy comincia col darne un’immagine derisoria. “Un filosofo francese ripercorre la storia e l’estetica della sorveglianza uditiva da Gerico a Tony Blair, tra spie travestite da confessori, talpe dai grandi orecchi sensibili e delatori di professione”. Ma conclude inneggiante: “Un’analisi attuale e necessaria, soprattutto in un Paese in cui – da Moggiopoli a Vallettopoli, dal Tiger Team di Telecom ai “furbetti del quartierino” (e ovviamente alla serie successiva d’intercettazioni di Berlusconi, n.d.r.) – cronaca e storia sembrano sovrapporsi alla pratica dell’intercettare”. In cui cioè l’intercettazione non è più un mezzo per arrivare alla verità ma la verità stessa, o realtà. Non una buona filosofia.
L’uso sapiente dello spionaggio è però mutato da Sun Tzu: è pervasivo. Non si applica più al nemico, è universale. Per aver manipolato il destinatario, che è sempre il manipolatore, parte attiva, e nel caso del re addirittura sovrana, la fonte della giustizia. Szendy lo stabilisce in partenza: “Dire che sono in ascolto equivale a dire che sono anche, e forse soprattutto, una talpa”. Ed è superficiale: è pettegolezzo.
Nulla di male neanche nel pettegolezzo, divertirsi è lecito. Come virtù politica lo elogiava del resto Eco nel “Costume di casa” già nel 1972. Al pettegolezzo, argomentava, si è portati quando non abbiamo opportunità di discussione pubblica (politica). Se non che non si fa per nessun fine, né a fini di giustizia, ma di parte, basandosi su “dati di fatto” che sono confidenze, indiscrezioni, pettegolezzi. Su Calciopoli per esempio, che si svolgeva tra Torino, Milano, Firenze e Roma. Su intercettazioni disposte d’autorità da chi nei forum di Kataweb veniva presentato incontestabilmente così:
“Il 19 luglio 1992 il giudice Borsellino veniva dilaniato da una bomba mafiosa con gli uomini della sua scorta. Un carabiniere, dopo qualche ora, si avvicinò ai resti dell'auto e raccolse la borsa del magistrato. Ora è indagato a Caltanissetta per avere trafugato l'agenda di Borsellino con gli appunti sull'omicidio Falcone e probabili spunti sulla trattativa tra Stato e mafia. Quel carabiniere è Giovanni Arcangioli: è lui a coordinare le indagini ed avere istruito le intercettazioni.
“Al suo fianco c’è Aurelio Auricchio (oggi colonnello, n.d.r.). Anni fa venne accusato di avere manipolato intercettazioni telefoniche. Lui querelò per diffamazione chi lo accusava di taroccare le intercettazioni, ma i tribunali gli diedero torto. Gli investigatori (Arcangioli e Auricchio) che hanno lavorato alle intercettazioni sono uomini di assoluta fiducia del generale Mori, capo del Sisde.
“Il fratello del generale dirige le attività di “sicurezza” di Mediaset”. Letture anonime, non di magistrati, non di generali dei carabinieri. Altrettanto godibili. Il fratello del generale lavorava per Berlusconi, il presidente del Milan, l’antagonista della Juventus – così come l’atro accusatore dello scandalo, l’arbitro Collina, di cui le tv di Berlusconi fecero un eroe, intemerato.
Le veline
Ma le intercettazioni non si fanno senza danno. Si pubblicano telefonate di questo a quello, e indiscrezioni varie, di abusi, sessuali e non, licenze e inganni, in cui non è più il potere che attraverso i suoi apparati droga l’informazione. È la giustizia, con i giornali. E non certo in omaggio alla libertà di stampa e al diritto all’informazione: il vizio è sempre quello delle veline di stampo fascista. Gli scandali politici venivano alimentati dal fascismo attraverso i giornali, ai quali il regime forniva in esclusiva le notizie e i materiali di corredo. La Repubblica naturalmente non è il fascismo, c’è la costituzione e c’è il mercato. Ma l’abitudine è rimasta: le prerogative costituzionali dei magistrati e il mercato convergono nel commercio delle notizie. Commercio non necessariamente a scopo di lucro, i magistrati non sono tombaroli – non sono ladri: a loro basta un semplice barbaglio di carriera, sociale e politica se non professionale.
Unanime e scandalizzata è stata la riprovazione di Murdoch, e più della sua manager ex segretaria Rebekah Brooks, tanto rossa e determinata, bella donna e per questo insopportabile, perché hanno spiato al cellulare principi, attrici e calciatori per i loro giornali di pettegolezzi. “Intercettare i telefoni è un brutto reato”, ha sermoneggiato nel caso l’Italia. Eccetto che in Italia evidentemente.
La vera differenza è che Murdoch e la sua ex segretaria non stampavano cose false – “montate”: tagliate, cucite, ammassate. Murdoch non spreca la carte, mentre l’effetto massa sembra fare aggio in Italia su ogni considerazione di costo. Forse in ottemperanza alla nota massima “calunniate, qualcosa resterà”. Una devozione?
La sfera privata e il libero giudizio, da sempre il fondamento della democrazia, sono ora perseguiti, ma non da destra come ci si aspetterebbe, da sinistra. Mussolini, che non si può apprezzare in nessun modo, ammetteva le barzellette, ora non più: il controllo si vuole totale, fino alle imprecazioni involontarie, e per questo è considerato morale, impegnato, progressista. Una volta, non molto tempo fa, prima che ci venissero a governare gli sbirri, origliare non era di buona educazione. Ora le migliori librerie e i migliori giornali non ci ammanniscono altro. Se non le testimonianze calibrate dei pentiti di mafia, o degli imprenditori falliti - i testimoni privilegiati sono in genere mediatori d’affari, concorrenti incapaci, ricattatori, grassatori, bancarottieri.
È evidente che non viviamo una bella stagione: avremo vissuto settant’anni senza guerre, non che si vedano, ma siamo caduti in bassa fortuna, manipolati da giornalisti e giudici di nessuna moralità, di quelli che “ammazzerei mia madre per…”, e dal pagliettismo. Si vuole il fenomeno un adattamento della cultura americana del Vendicatore, dei Marlowe, dei detective, della verità che abbatte l’ingiustizia, ma è solo pettegolezzo: al bar, al mercato, in strada, e sui mezzi pubblici non se ne percepisce altro odore. Per pettegolezzo del resto i media li vendono, non curandosi di conseguire alcuna ingiustizia.
Non un casalese è stato arrestato e condannato grazie alle intercettazioni, uno di quei terribili personaggi che ingombrano le librerie. Né un mafioso o uno della banda della Magliana. Nemmeno uno di quegli incredibili latitanti trenta e quarantennali, anche se hanno fatto numerosi figli, li hanno avviati agli studi o alla professione, hanno sposato le figlie, hanno condiviso i matrimoni, i battesimi e le malattie in ospedale della famiglia, sempre numerosa, eccetera. L’unico sequestro di persona nel mitico Aspromonte in cui sono state usate le intercettazioni, quello della signora Sgarella, ha dimostrato che la temibile Anonima era una famiglia di balordi – il sequestro Sgarella è stato l’ultimo, ma di intercettare i banditi non si è più sentito parlare, si rischia di prenderli? Le intercettazioni, nessuno della miriade di gialli che occupano le librerie ne fa caso. Né le dieci o dodici fiction investigative che si ripetono in tv, di carabinieri, poliziotti, giudici, preti e guardiamarina, che per questo forse si ripetono ogni anno sempre con successo. Le intercettazioni che si sono fatte valere, e con che dettaglio, sulla preparazione della strage di Duisburg non l’hanno evitata.
E la ragione è semplice: un’intercettazione su cento, forse, si giustifica con ragioni d’investigazione. Le altre nascono e s’ingravidano all’insegna del dossier, la pratica poliziesca che condiziona la politica dagli anni del piano Solo – il ricostituente della Repubblica è il veleno, in forma di segreto, e appunto di ricatto. Ma l’origine è fascista.
I dossier
Le intercettazioni, un tempo in sospetto per le “deviazioni” acclarate dei servizi segreti, sono dopo Mani Pulite il metodo d’indagine preferito: non ci sono più indagini ordinarie, o denunce documentate, né impegni precisi e delimitati dei responsabili di polizia giudiziaria. Sono un metodo sempre produttivo, ma a fini di scandalo: se non c’è reato c’è sempre turpitudine, negli altri. Danno lustro: quante carriere sulle intercettazioni. Sono comode: piuttosto che lavorare, e magari rischiare, gli sbirri fanno orario d’ufficio e danno appalti, a minisocietà d’informatica e tecnici del suono, il figlio, il nipote, l’amico del figlio, e a dattilografe, interpreti, specie dai dialetti, abili trascrittori. Poche centinaia di euro, ma questo è il grosso della corruzione in Italia.
E pur così diffuse non bastano. Di Pietro, che su Mani Pulite ha costruito un partito ed è stato ministro, se ne da ultimo se ne lamentava: “Nel ’92 noi arrivavamo la notte e la stampa veniva a sapere il giorno dopo. Oggi, invece, gli atti delle inchieste vengono pubblicati passo dopo passo sui giornali – e questo è un bene perché l’opinione pubblica dev’essere informata – concedendo però un vantaggio agli indagati”. Non bastano perché la repressione non è mai abbastanza. Non è della giustizia che le intercettazioni sono strumento, ma del potere. E il potere è insaziabile, sia pure in regime, di esercizio incondizionato del potere.
Si fa finta che le intercettazioni siano opera di giustizia mentre sono, e tutti lo sanno, opera di dossieraggio, cioè di spionaggio. Quanti cronisti non si sono visti offrire dei dossier completi? Con cassetta, con trascrizione rivista redazionalmente.
Non c’entra la giustizia con le intercettazioni, se non nel senso deteriore che essa ha acquisito in Italia dal processo a Sofri in poi. Mentre tre gravi deficit di democrazia si sono con esse costituiti. Della legalità, sacrificata ai dossier. Della giustizia. Dell’integrità delle forze dell’ordine. Si conferma che la vera questione morale è in Italia, dal 1992, di chi si avvantaggia della questione morale. Di chi si pretende società “civile” che surroga la politica in ogni sua piega, dalle signore girotondine ai compagni reduci e a tutti i furbi: il combinato media-giustizia, con gli speculatori in veste di parroci e editori della questione morale, singoli e bancari.
Pasolini era un pompinaro
È volgare, ma è questa la verità di una intercettazione che fosse stata fatta, per un anno, con microfoni ambientali, foto all’infrarosso, webcam, a carico del poeta, che ogni paio d’anni veniva regolarmente processato. È la verità delle intercettazioni e dei testimoni, generalmente falsi, delle maggiori inchieste italiane. I cui moventi, siano esse opera effettivamente delle magistrati napoletani, come pretendono, oppure di uffici speciali dei carabinieri, della finanza, dei servizi segreti, ancorché forse anch’essi napoletani, restano oscuri. “Se anche ai tempi di Pasolini ci fossero stati i telefoni azzurri e i cellulari in mano ai minorenni”, scriveva Arbasino che gli è stato amico al “Corriere della sera-Roma” il 23 aprile 2006, “come si realizzerebbero adesso i convegni, le commemorazioni e i dibattiti?” Sarebbe istruttiva, se non interessante, una vita giudiziaria di Pasolini, anche senza le intercettazioni: da quella di Siciliano, che però trascura questo aspetto, si evincono una diecina di reati a lui addebitati dal 1949 al 1975, un nuovo processo in media ogni due anni, da cumulare ai precedenti. Oscuro non è che Pasolini usasse i marchettari, “Petrolio” ne è pieno. Ma fare di un vizio privato materia di inchiesta giudiziaria, a spese dell’erario, con tanti efferati delitti che restano impuniti, nonché di saggi giornalistici e filosofici sì.
Non è il solo punto interrogativo. L’altro è la confluenza destra-sinistra in questa presunta opera moralizzatrice. È evidente – “io lo so”, direbbe Pasolini – che la centrale è unica. La furia moralizzatrice è oggi di sinistra forse per perbenismo. Forse: c’è infatti anche un mercato delle intercettazioni, dentro e fuori Telecom. E questo, che non è un punto interrogativo, fa dei moralizzatori al meglio degli stupidi.
L’argomento si può affrontare in altro modo: le intercettazioni si leggono sui giornali, li rendono indispensabili rispetto alla tv. Sono anche le sole cose che si leggono sui giornali, in politica, in cronaca, nello sport, negli spettacoli. Perfino nella cultura, seppure in forma di diari e epistolari di autori e artisti, che vi si esprimono in libertà. Ma che c’entra la giustizia? Perché dedicarvi le sue (nostre) risorse e dissiparvi il suo status?
È anche vero che i media sono sempre più parte dell’apparato repressivo e non dell’opinione pubblica – o che l’Opinione è apparato repressivo, tanto più duro per essere subdolo (avvertito, flessibile). L’opinione pubblica è la tipica realtà virtuale, non la coscienza vigile della nazione di cui si è filosofato. È finzione. È più spesso sopraffazione, del più dritto (capace) ma anche del più potente e del più ricco. Dittatura non debole, perché identifica la politica, ma non veritiera – falsa, ignorante, incosciente, autoriproduttiva. È il fascismo contemporaneo. Non manesco, ma altrettanto violento e invadente.
Il problema comunque resta: perché tutto questo sarebbe di sinistra? Cioè un fatto di giustizia, che è il fondamento del socialismo. Furio Colombo ha un “Elogio delle intercettazioni” (in “Micromega 5\2206). L’elogio era propiziato all’epoca, 2006, dalla intercettazioni del “re sporcaccione” Vittorio Emanuele di Savoia, del segretario di Fini, della prima moglie di Fini, “e del colorito assortimento di imbrogli da telefilm, dal casino al casinò”, in “un’azione giudiziaria contro il malaffare così saldamente fondata su prove, documenti, e confessioni”. E invece poi finita nel nulla. Lidia Ravera, che è buona scrittrice, sa di che parla: “È una nuova forma letteraria, l’intercettazione”, scriveva sullo stesso numero di “Micromega”, il genere troiaio. Furio Colombo, che è stato sociologo dei media prima di diventare deputato Ds e direttore dell’“Unità”, invece si smarrisce, dice tutto e il contrario, e conclude: “Per fortuna ci sono i giudici”. Ma Furio Colombo, intercettato vent’anni fa, sarebbe risultato il presidente di una società di ladroni, la Fabbri-Ifil. Un giorno che Romiti, per dire, stanco di dover combattere una vita con Umberto Agnelli, protettore di Furio, avesse deciso di raccontare al telefono come la Fabbri dell’Ifil faceva gli utili. E come, presidente Furio, rifilò alla Rizzoli Corriere della sera il famoso “pacco” che le costerà un buco di 1.300 miliardi. Se ci fossero state le intercettazioni i giudici non avrebbero potuto non giudicarlo. Per fortuna, in questo caso, della legge.
Le vergini sono maschie, di destra
Le vergini delle intercettazioni sono in genere uomini. Che si scandalizzano. Non delle intercettazioni, ma del contenuto di esse. Alcuni sono gentili, Colombo lo è per natura, ma in genere sono uomini massicci, tricofili, per quanto curati, di carattere, giusti come i crociati, come i fascisti, il genere improsatore, stupratori legali. Alcuni sono veri e propri fascisti, di opinione politica, tra i magistrati e i giornalisti, nonché nelle cosiddette forze dell'ordine. Una costante delle intercettazioni, certo casuale, è che i giornalisti specializzati sono ex fascisti - e che tutti sono diventati colonne dei giornali e dei talk show (ex) comunisti (i più noti tra essi, D’Avanzo e Travaglio): ma il problema qui non è la sinistra politica, sono le intercettazioni.
Non è casuale la scelta di questi intermediari da parte delle fonti, né la mentalità benpensante degli stessi giornalisti. Forse non ci sono percorsi occulti o segreti, ma una comunicazione avveduta e anzi studiata sì. Qualificato di giornalismo migliore, nuovo, civile, d’inchiesta, di denuncia, impegnato, è invece un modo subdolo per tenere la sinistra al guinzaglio. Va bene per questa strana nuova sinistra, che dalle sue nuove radici romane si può qualificare di pariolina o balduina, bene, a modo, sensata e sapiente: molti spettacoli, gratuiti, e letture di Dante, niente rumeni, morte ai politici, ladri, ruffiani, corrotti. Questa pubblicistica immiserisce il voto, che è l’unica risorsa della sinistra, la politica - la sinistra, una sinistra vera, ha solo la politica, non ha banche, giornali, bombe, veline, intercettatori, non può averli, o altrimenti per uno scopo non suo.
È comunque immorale la moralità di certi moralizzatori, che possono servire ugualmente Berlusconi e i suoi giudici, Agnelli e “l’Unità”, De Benedetti e Madre Teresa. E col loro modello e santo Indro Montanelli essere di centro, di destra e di sinistra tutto insieme. La furbizia è la virtù nazionale, nulla da eccepire. Si arriverà del resto un giorno alla pubblicazione di tutte le telefonate intercettate dalla centrale milanese di Telecom, il divertimento può continuare all’infinito.
Ma se l’intellettuale ha una virtù, è quella dell’onestà.
Quando non è spionaggio, infatti, l’intercettazione è disinformazione. Senza scandalo: delazione e ricatto sono gli strumenti della democrazia italiana - la nostra società “aperta” si realizza attraverso la sistematizzazione del sospetto. Ciò avviene con costanza e scopertamente da Mani Pulite in poi, il golpe strisciante contro la politica in atto da vent’anni. Ma sono almeno quarant’anni, dal centro-sinistra, che ogni tentativo di legalità viene costantemente deviato o respinto. Dal disarmo della polizia si è passati alla strategia della tensione. Il divorzio e il voto a Berlinguer sono finiti nel terrorismo. Il codice garantista di procedura penale è finito nelle indiscrezioni, le intercettazioni, le chiamate di correo. Il golpe strisciante radicalizza ciò che prima veniva solo sussurrato – e in chiave andreottiana, scettico-ironica: il governo minimo, attraverso la crisi, o l’impossibilità della politica. Il moralismo attacca di facciata la politica, a meno che non sia quella onesta alla Bertinotti (“ho ragione e mi metto da parte”): è un plotone d’esecuzione puntato. Un tempo contro i grandi sommovimenti, ora contro anche le virgole che disturbano. Con spreco di richiami alla Legge, allo Stato, mentre è solo un piccolo, squallido, leviatano. Nulla è più personale, c’è un reato per ogni comportamento, con licenza quindi di allargare i controlli alle abitudini di letto delle veline (corruzione), alle raccomandazioni (voto di scambio), alla moviola del calcio (Juventus), agli incontri in Sardegna o al ristorante fra politici (inciucio).
I poteri non sono oscuri, che agitano il sospetto come strategia dichiarata, e anzi occupano ogni giorno la televisione. Giornalisti Rai – corrotti per definizione: raccomandati, lottizzati – si ergono trinariciuti insieme con le vestali ex missine del giornalismo d’assalto. Non il meglio di una nazione, anche se questa è l’Italia. Ma con un difetto d’origine in Mani Pulite, un vero e proprio golpe, di cui la sinistra s’è resa ostaggio. La sinistra che non ha mai governato, caso unico in Europa, ha coperto col suo credito un’ondata distruttiva della destra più oscura, malevola, illiberale. Non nelle aule parlamentari forse, ma nella cultura sì, nell’opinione, nel modo d’essere. L’ultimo intrigo, arma imbattibile, è la questione etica. Il moralismo richiede molto pelo sullo stomaco, le anime semplici che vi si avvicinano ne sono distrutte.
Il moralismo è regola durissima di vita, più che dittatoriale. La logica moralista, non c’è modo di difendersi, è un bulldozer. È lo stato di polizia. Scompare la nozione di crimine, scompare il diritto, tutti siamo colpevoli, quelli che dobbiamo essere colpevoli. Ed è giusto che si sappia, si dica. Si uccida, anche.
Anche se, bisogna dirlo, sono giudici che riconoscono a occhio i galantuomini dai criminali: sono infatti gli stessi che non hanno mai indagato il vero affare Sme, quello tra Prodi e De Benedetti, le cui malefatte sono state documentate in diecine d’inchieste giornalistiche. Non per disattenzione, ma per cavalcare meglio la rivoluzione – per i benpensanti tournés rivoluzionari la rivoluzione è qualcosa che sa di Amici\Nemici, la famosa teoria politica di Schmitt che poi è quella della mafia.
Il Leviatano in ermellino
La giustizia in Italia viene sempre in ermellino. Molto autorevole. Autoritaria. Non vuole sentire ragioni. Nel senso letterale e anche oltre. La sentenza 29350 della Cassazione, del 2006, stabilisce: “Le intercettazioni sono una prova anche quando sono criptiche”. Una prova, non un indizio.
I giudici si appassionano molto. Di calcio, di politica, di diritto, di diritto soprattutto, sono legulei congeniti, ma più spesso di scemenze. Le dimensioni del bagno, nelle procure, nei tribunali, le piante ornamentali, il parcheggio riservato, il posto barca al porticciolo. In un caso famoso di un giudice ministro perfino i fiori su un balcone. Per queste cose diventano vendicativi all’estremo, fino al killeraggio. Beninteso di carta bollata. Le cose che sono ovvie per tutti, per esempio che la trascrizione dev’essere fedele alla telefonata, e che le telefonate debbano essere “tal quale”, senza nemmeno un “salto” di un nanosecondo, è per loro oggetto delle più assurde semantiche. Qualsiasi montatore o doppiatore di cinema sa che la trascrizione è l’arma più sbirresca che ci sia, qualsiasi spettatore di cinema sa che non solo il tono o l’accento di una parola può cambiare il significato di una storia, ma anche un sospiro, magari trattenuto. Il giudice no, il giudice prende la trascrizione per verità, solo lui: lui è la Verità.
Qualsiasi elettrotecnico sa che una registrazione è la prova più malleabile. La trascrizione intanto è una selezione, e questo non c’è bisogno di Eco per spiegarlo: qualsiasi verità si può montare, nessuna speciale abilità è richiesta, basta saper fare il montatore, tagliare e cucire, su una massa di suoni o di immagini, ognuno ne fa l’esperienza ogni giorno, negli equivoci della conversazione ordinaria. Quanto al documento originario si adultera con facilità, basta lo scarto di una frazione di secondo, l’abolizione dei rumori di fondo, l’introduzione di rumori, il fading di certe parole, o di una voce (in genere quella femminile, la donna non sarà colpevole ma è tentatrice): il bagaglio delle alterazioni è infinito e infinitesimale, e si fa con niente. Una registrazione che si faceva circolare in sala stampa alla Camera nel 1980 trasformava le conversazioni tra un grasso ministro socialista e una donna di grande fortuna con imprenditori giovani in convegni libidinosi attraverso lascivi rumori di fondo, improbabili al telefono.
Le intercettazioni sono poliziesche, non è vero che siano casuali. Non è vero che sono sviluppo dell’azione penale, la quale invece è circostanziata e non casuale. Non s’indaga su un’ipotesi di reato. Si sta ad ascoltare un uomo (non ci sono delinquenti donne?) in tutti i momenti della giornata, su tutti i telefoni che usa, con chiunque parli, di qualsiasi argomento parli. Non si indaga nemmeno su un affare, un settore di affari, un’azienda, un ambiente di affari, ma per mesi e anni, ventiquattro ore su ventiquattro, su quella sola persona.
Italia sovietica
È come se l’Italia, occidentale, democratica, non si fosse desovietizzata. Incatenata com’è al doppio linguaggio, all’ipocrisia,alla dissimulazione, non esclusa la violenza che tutto ciò comporta. Sia pure a mezzo dei maggiori giornali nazionali. Per quanto desovietizzata è termine sbagliato, si fa torto all’Urss, l’Italia non ha mai avuto uno Stalin. Pretastica sarebbe più giusto, proprio dei preti che si pensano inventati dall’anticlericalismo e invece sono veri e vivi insieme a noi. Alla Corte Costituzionale per esempio. Al Consiglio Superiore della Magistratura. Senza tonaca e senza dirittura morale o coerenza, ma sempre untuosi, unti dal cielo, per sacramento, e quindi nel giusto.
L’indiscrezione è l’odio, la lingua residua degli esclusi. Che più si allontanano dalla caduta del Muro meno trovano un’idea e uno stimolo. Formidabile la loro assenza nella costituzione in corso delle vecchie-nuove oligarchie: banche (tutte Centro, insomma “Dc”), Procure della Repubblica, giornali. Ma più si fanno astiosi, e forse infami (dossier, manipolazioni, intercettazioni). Mai storia di perdenti è stata peraltro più disprezzabile. Per gli eccidi, di altri comunisti, dei poveri, degli stranieri, e per l’ipocrisia. Per la miseria umana (la servitù volontaria, la delazione, il gregarismo, l’inumanità)? O perché questo “comunismo” è ancora tra noi?
La “follia dell’abitazione”
Nel racconto “La torre” Kafka fissa il fenomeno, nelle specie di una talpa, che impazzisce per localizzare la fonte di un rumore che la infastidisce nella sua tana. Come Harry Paul-Gene Hackmann della “Conversazione”, e come il “Re in ascolto” di Calvino, la talpa è ben maestra dell’ascolto, che pratica con costanza, in casa e fuori, riconosce i rumori, sa riportarli alle fonti, ma non risolve il suo problema. È che, conclude Szendy, “a forza di entusiasmarsi, decostruendo e ricostruendo senza sosta la struttura in cui alloggia, l’ascolto finisce qualche modo per ascoltarsi, cioè per cedere all’autosuggestione. In un crescendo di ipotesi l’udito ipogeo sembra trasformarsi in immaginazione, in follia dell’abitazione. Erige con metodo teorie, ognuna più cieca e falsa delle altre, e a misura delle strutture così costruite, costruzioni teoriche…, demoltiplica l’oggetto del suo ascolto”.
Ne “I segugi” di Sofoche, il primo giallo della letteratura occidentale, come già nell’“Inno omerico” di analogo soggetto, un giallo alla Poirot, da “celluline grige”, si indaga il furto delle vacche di Apollo. Commesso da Ermes. Che le vacche aveva fatto avanzare all’indietro, a passo di gambero, per confondere le tracce. Ermes, il ladro, ha inventato e suona per i segugi la lira, con la quale li incanta. Ai segugi che le chiedono cosa sia mai quel suono, la dea dei luoghi Cillene risponde che è una bestia morta. Coro: “Ma come credere che questo sia il suono di una bestia morta?” Cillene: “Credimi; anzi, solo morta ha avuto la voce; da viva era muta”.
“L’umiltà del male” è un ossimoro, il fortunato saggio di Franco Cassano, il male è insidioso e letale: conviene sporcarsi le mani piuttosto che stare ad ascoltare – sporcarsi le mani tanto per dire, sarebbe un altro ossimoro, insomma muoversi, fare le prove, guardarsi allo specchio, con occhio sinottico, panoramico, comparatistico.
 


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