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sabato 10 marzo 2018

Heidegger kabbalista

Una cultrice della materia fa i conti con l’antisemitismo del suo profeta Heidegger, nei “Quaderni neri”, prima e dopo. Da heideggeriana sempre di ferro, non pentita.
Donatella Di Cesare se ne è fatto anzi un programma. Che così spiegava a Antonio Carioti, presentando questo lavoro alla prima edizione. Allora nota come vice-presidente della Fondazione Heidegger, a marzo 2015 si era dimessa, dopo le dimissioni del presidente, Günter Figal, quando aveva letto i punti controversi (antisemiti) dei “Quaderni neri”, ma professandosi ben heideggeriana: “Figal considera quei brani rivoltanti e non vuole più essere collegato a Heidegger. lo al contrario ritengo che proprio i Quaderni neri impongano di approfondire e ampliare il dibattito su quello che rimane il più importante pensatore del Novecento, per capire le origini filosofiche del suo antisemitismo».
All’inizio c’era Lutero
Una riedizione lievemente aumentata, a un anno dalla prima, e dopo molte ristampe. Per tenere conto del volume di “Quaderni neri” successivo ai primi tre, 1931-1941: le “Anmerkungen” I-V, 1942-1948. Con un uso per una volta funzionale, significante, della terminologia originale tedesca, non oppositivo – ma i rimandi ai “Quaderni neri” purtroppo non sono stati aggiornati sulla traduzione italiana intanto intervenuta, per i primi tre dei quattro volumi che raccolgono i taccuini (la traduzione del quarto e ultimo, 1942-1948, si annuncia per maggio), e sono quindi inutilizzabili: il décalage  nei rimandi è di circa 15 pagine in più, per l’edizione italiana (anche di altri titoli, per es. Valéry, “La crisi del pensiero”, non si dà il riferimento all’edizione italiana). Centrale alla trattazione la parte terza, “La questione dell’essere e la «questione ebraica». Centrale per il lettore è la parte seconda, la breve, sorprendentissima, storia dell’antisemitismo nella filosofia tedesca, a scuola dalla teologia di Lutero, l’inventore della Ausrottung degli ebrei, della Vernichtung, l’annientamento, lo sterminio (i suoi “Judenschriften” ebbero larga diffusione negli anni 1920): “La Filosofia e l’odio per gli ebrei”.
Una resa dei conti con Heidegger sull’aspetto forse più nequitoso del suo nazismo. Un tour de force, appassionato e applicato. Un exploit, per quanto controvertibile. Una rilettura di Heidegger alla luce della “questione ebraica” che lui stesso pone, più scopertamente nel “Quaderni neri”, gli appunti (ordinatissimi) 1930-1948 che ora si pubblicano. Ma anche prima e dopo – le note di “Heidegger e gli ebrei” prendono sessanta pagine, la bibliografia una ventina abbondante .
Con la testimonianza, infine, del non detto, documentata: l’antisemitismo filosofico in Germania, da Lutero in qua, e l’arrampicata sugli specchi “dopo Auschwitz”, all’insegna del “tradimento” e della “vendetta”, ancora, senza colpa. Alla fine del lungo, insistitito, atto d’accusa, Di Cesare lascerà il suo profeta  “immerso nelle brume della Foresta Nera”. Ma sempre santo.
(L’amore del tedesco)
Il riesame di Heidegger alla luce della “questione ebraica”, che è il fulcro della trattazione, “La questione dell’essere e la questione ebraica”, sa di azzardo. Ma la ricostruzione – l’atto di accusa – è circostanziata e filante. Heidegger politico è indifendibile, e lui se ne sarebbe offeso: non si scusò in pubblico e nemmeno in privato, non con Celan, che lo commuoveva, non con Hannah Arendt, che lo tolse dall’inferno, dopo averlo innamorato.
Ottime pagine si leggono peraltro proprio sul rapporto tra Celan e Heidegger. Per la loro contradittorietà. Un’amicizia, si può dire, tra i due, durata vent’anni. Con stima, da entrambe le parti. Heidegger, che non leggeva nulla di nessuno, lesse e apprezzò Celan. Il poeta ha lasciato 33 volumi di Heidegger minutamente commentati. 
Un’amicizia, quella di Celan per Heidegger, e una stima profonda, quella di Di Cesare per lo stesso, monumentale, salvifica, e degli ebrei tutti si può dire (si ricorderà la passione di Hannah Arendt per la “madrelingua”, e dei tanti altri emigrati forzati) nei confronti del tedesco, la lingua. La matrice, quindi tutto: la filosofia, la storia, e l’acuminato silenzio.
Un interminabile corpo a corpo, questo tra teutonismo e ebraismo, a letto come in armi, in una sorta di avvinghiamento distruttivo e appassionato – lessenza della logica Amico\Nemico: essere-per-il-nemico. Succede per Heidegger come per Wagner, altro grande antisemita – con l’esito, non casuale?, dell’identificazione in Heidegger, lo Zerstörer, e il pregiudizio verso Adorno, che invece ha visto e detto giusto.
Antisemitismo metafisico
La politica non è per Heidegger incidentale e trascurata. I “Quaderni Neri” mostrano che fu sua attenzione  costante. Costante fu anche il suo antisemitismo. Un po’ anche pratico – non è assunto del libro -  ma soprattutto filosofico, in una con la (ri)caduta nella metafisica. Nella “tradizione della metafisica occidentale”: “Nel suo antisemitismo metafisico Heidegger non è isolato: segue una lunga scia di filosofi, da Kant a Hegel e a Nietzsche”.
C’è un antisemitismo “metafisico”, filosofico. Con l’aiuto di Poliakov e altri esperti, Donatella Di Cesare rifà la storia di questo antisemitismo radicale, sempre forte in Germania da Lutero in qua: Kant, Fichte, Hegel, Nietzsche, Frege, e fino a Hitler, al capitolo “Popolo e razza” del “Mein Kampf”, cui dà spessore anche filosofico, Carl Schmitt e Heidegger. Una ricostruzione originale, seppure sintetica, di grande lettura. Il Nietzsche che voleva “far fuori tutti gli antisemiti” era solo arrabbiato perché coltivavano un “falso” antisemitismo, lui aveva quello vero, radicale, esclusivo.
L’ebreo sfugge a Kant, alla sistematizzazione della ragione, che quindi evoca-avoca l “eutanasia dell’ebraismo”. La sua riflessione, “La religione nei limiti della sola ragione”, è teologia luterana razionalizzata. Kant, Hegel, Nietzsche, Heidegger, l’ebreo è caratterizzato dalla losigkeit, dalla mancanza: di Dio e del mondo. È “una metafsica dell’ebreo”, sintetizza Di Cesare: l’ebreo non è, “l’ebreo è come la pietra, weltlos”, senza mondo, senza consistenza.
Su Kant c’è da obiettare, nella persona e nel pensiero. Su Hegel meno, ma è pur sempre quello che fece discendere la grande filosofia tedesca dall’ebraismo – anche dall’ebrasimo, ci sono poche cose che Hegel non ha fatto.  Nel discorso inaugurale a Heidelberg il 28 ottobre 1816, poi in  “Lezioni sulla storia della filosofia”, che dice la filosofia in Germania erede dell’ebraismo: la Germania rappresentando come la depositaria finale del ”fuoco sacro” dello spirito, dice proprio così Hegel, del Geist, compito che una volta era spettato “alla nazione ebraica”. Le genealogie sono rischiose, ma se fossero vere? Dei tedeschi non c’è da fidarsi, a lungo hanno voluto invece essere greci, però…
La questione Di Cesare complica con la (ri)caduta dello stesso Heidegger nel Geist, lo spirito che invece lui, a differenza di Hegel, disprezzava. Un fantasma si aggiràaper la filosofia tedesca, alemannica, heideggeriana: lo spirito, prima fermamente respinto, parte della deprecata metafisica, poi evocato. Heidegger, che disprezzava lo “spirito”, lo diceva “ebraico”. Cioè, Heidegger non lo dice ma Derrida glielo fa dire, nella conferenza del 14 marzo 1987 al Collège de France, sul tema “Heidegger: questioni aperte”, a proposito della polemica allora accesa sul suo nazismo - poi pubblicata,  rimpolpata, come “Dello spirito: Heidegger e la questione”. La vera “questione” è l’antisemitismo di Heidegger. Il terreno di coltura è lo Spirito, che non è l’esprit francese ma il Geist, con i connessi geistig  e geistlich. Che Heidegger non usa prima, se non tra diminutive virgolette, e anzi sconsiglia, ma dal “Discorso del Rettorato”, 1933, e poi per una ventina d’anni a profusione, fino alla lettura di Trakl. Cioè fino alla riabilitazione – questo a Derrida è mancato? Ma no, anche dopo: fino alla fine, all’intervista a futura memoria allo “Spiegel”, sotto il nome di destino, la Führung, il Gemüt, il Volk (il Volk…)il Dio nascosto, l’alba che non può mancare, il viaggio incognito. Fino al ritorno, dopo la sconfitta e il silenzio imposto nei pochi anni fino alla riabilitazione, del “destino inevitabile”, tra l’Occidente e l’Oriente assenti (ben presenti, ma “vuoti”) - via Trakl. Dopo averlo temprato via Hölderlin e (l’incolpevole) Schelling. Col “fuoco” e la “fiamma”, spirituali beninteso, che tanto infiammano Derrida, detective ignaro.
Derrida, altro heideggeriano stregato, del pensiero e della lingua, fa un’altra storia del semitismo nella filosofia tedesca. È lui che celebra lo Hegel del discorso inaugurale a Heidelberg il 28 ottobre 1816, che dice la filosofia in Germania erede dell’ebraismo. Le genealogie, è vero, sono rischiose - anche perchè, come i tedeschi si volevano e si vogliono greci, molti ebrei si volevano e si vogliono tedeschi. Il pensiero di Heidegger è perfino trasparente, pur nella sua sorniona allusività - altrove si direbbe mafiosità. Che Derrida, benché appassionato delle decifrazioni, trascura - la sua questione è “dei pensieri e degli impensieri” di Heidegger. Di Cesare meno, ma non del tutto.
Questione ebraica”
C’è una “questine ebraica” nella filosofia. Nella “filosofia occidentale”, in realtà tedesca. Di Cesare ne fa la questione centrale, seppure surrettizia. Più “centrale” per essere surrettizia  Perfino mascherata, per una strategia dell’occultamento-dissimulazione: Heidegger e Carl Schmitt fanno antisemitismo radicale evitando accuratamente la parola, “Jude”, spregiativa. Col rischio – l’esito – di comprovarla. L’occultamento è ingegnoso, se è vero che in tutta la sterminata opera di Heidegger “non si trova una sola frase antisemita”, come vuole il “Dictionnaire Martin Heidegger”.
Per questo aspetto la questione non è nuova. Simulazione-dissimulazione, si finisce nell’imbuto di Bourdieu, “L’ontologia politica di Martin Heidegger” (tradotto “Führer della filosofia? L’ontologia…”), che fa di Heidegger un campione della “dissimulazione”, volendo argomentare il contrario -  Bourdieu critica chi trascura l’autonomia dello “spazio filosofico” rispetto all’impegno politico, ma poi mostra come questi spazi Heidegger articoli nell’“ambiguità”, e non a caso o per errore, ma per una precisa strategia di comunicazione. Heidegger ha dovuto, ma di più voluto, atteggiarsi, per una sua propria idea del suo pensiero e del suo spazio pubblico. Da qui allusioni, sottintesi, qui lo dico e qui lo nego, affermazioni-distinzioni, si affanna Bourdieu in difesa: ciò non gli ha impedito di “produrre” un “discorso filosofico”, indenne anche da condizionamenti politici o partitici, ma senza spiegare le strategie linguistiche, le ragioni del dire e non dire – non potevo, non era possibile, non ho avuto il coraggio, una qualsiasi ragione.
In realtà Heidegger fino all’ultimo, all’intervista che ha voluto postuma con lo “Spiegel”, non ha disgiunto il “discorso filosofico” dall’impegno politico. Questo è vero, Donatella Di Cesare ha ragione. Ma senza secondi fini, era uno così, tutto d’un pezzo - allo “Spiegel” dice: “(I francesi) quando cominciano a pensare parlano tedesco”, senza perifrasi. Nel quarto quaderno, che copre gli anni 1942-1948, la Tötungsmaschinerie, la fabbrica di morte, e la Vernichtung, l’annientamento, ritornano, più di una volta, ma vedono vittima la Germania, e sono opera degli Alleati contro i buoni tedeschi. In quest’ultimo quaderno sono gli americani, “che a ben guardare sono europei” (maledetta Europa?), che hanno fatto guerra alla Germania, non viceversa.
Heidegger kabbalista
Il fulcro è la ricaduta nella metafisica, con la questione ebraica, lungamente argomentate. La metafisica aborrita, che l’Essere risolve nell’ente, nei “Quaderni neri” è imputata all’ebraismo: “Per Heidegger esiste un nesso di complicità tra metafisica e ebraismo…. Esito unico e aberrante della modernità, il potere ebraico è il predominio dell’ente. La condanna non potrebbe essere più schiacciante” (del potere? della metafisica?). Tutto questo al coperto, nel non detto.
Un compito Donatella Di Cesare si assume analogo a quello svolto dal Bourdieu citato su Heidegger campione della “dissimulazione”. Fino poi a fare del silenzio la scaturigine del linguaggio – come di fatto è. Distinguendo, certo, tra la reticenza, il Verschweigen, e il passare sotto silenzio, l’Erschweigen, il corpo fertile del non detto. Uno che sapeva cosa voleva quando non voleva dire. 
Su questo non detto, fa giganteggiare una “metafisica ebraica”, di cui ai “Quaderni neri”, con la “metafisica occidentale” al centro dell’attenzione (critica) di Heidegger. Mette anzi la “questione ebraica”, l’ebraismo, al centro della filosofia - della “filosofia occidentale”, in realtà tedesca. In alternativa a quasi tuta la filosofia tedesca, derivata dalla teologia luterana.
Un “ebreo” viene ipostatizzato, con una “filosofia occidentale”. Un ebraismo elevato a contraltare della “filosofia occidentale”. O anche non contro, ma della stessa consistenza e rilevanza. E fa come se la “metafisica occidentale” vivesse nel e per l’antisemitismo: “L’Ebreo è insediato nel cuore del pensiero di Heidegger, nel centro della questione per eccellenza della filosofia”.
Come? “L’antisemitismo ha una provenienza teologica e una intenzione politica. Nel caso di Heidegger assume anche un rango filosofico” – teologica, cioè luterana. Ma, se così è, se è una contesa alla pari, è una guerra semmai di titani, non antisemitismo. Che è invece la “distruzione” (Zerstörung) degli ebrei. Fisica, non metafisica. A meno che una “metafisica ebraica” non ci sia. Anzi, la colpa di Heidegger non è stata il nazismo, è stata la ricaduta, a proposito dell’ebraismo, nella metafisica: “Ecco la profonda, ingiustificabile, «colpa»: Heidegger «si compromette con la metafisica», Di Cesare conclude con Lyotard.
Di più – di questo giallo si può svelare la conclusione: “Non si può non constatate questa sorprendente coincidenza, nel nulla, e nella reazione del nulla, tra Heidegger e la Kabbalah” – attraverso, opina ancora Di Cesare in nota, Meister Eckhart e Jakob Böhme. E continua: “Una convergenza che si estende anche al modo di intendere il nulla, che non è mera negazione. Segreto,  nella sua presenza, inaccessibile, nella sua accessibilità, il nulla è la profondità  dell’Essere, è la tenebra da cui sorge ogni luce…”. L’antisemita Heidegger ebreo in quintessenza… Ma non è una burla: il linguaggio non perdona.
Una dichiarazione d’amore? Molto naturalmente è contestabile – l’assunto è forte, la filosofa l’avrà scontato. A supporto – a difesa di Heidgeger, non più isolato nella colpa – cita, come già Derrida, anche una conferenza di Valéry, 1919, alla fine della guerra,  “La crisi del pensiero”, che non c’entra nulla. Nel contesto di “Heidegger e gli ebrei”, ma pure nell’esposizione che Derrida ne fa in una lunghissima nota, Valéry non c’entra nulla, è solo il vezzo citazionista di Derrida. Ma serve a fare di Heidegger un mezzo fratello, solo un po’ traviato.
Suscita scandalo la conferenza di Brema, dicembre 1949? Ci sarebbe di che, Heidegger vi argomenta che “l’agricoltura è oggi industria alimentare, che nella sua essenza è lo stesso della fabbricazione di cadaveri nelle camera a gas e nei campi di sterminio, lo stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo stesso della fabbricazione di bombe all’idrogeno”. Ma è la stessa cosa, obietta Di Cesare: è “l’estraniazione dell’esserci dall’Essere”. Questo è il delitto supremo. “Il disinteresse ontologico di Heidegger verso la Shoah” non è cattiveria, ha un fondamento, anch’esso ontologico: “Nella storia dell’Essere non c’è posto per le grida soffocate delle vittime. Non c’è posto per l’orrore né per il trauma”. E beh, certo, a Brema Heidegger non mise “camera a gas” tra virgolette, come suole, e disse proprio “campi di sterminio”, e non come suole Kz, campi di concentramento.
L’introduzione-sommario del resto si conclude con una serie di pezze d’appoggio insostenibili – anche per chi per Heidegger non spasima. Con la Judenfrage, questione ebraica, come opposta alla Seinfrage, la questione dell’essere. Con un Heidegger che aderisce al nazismo per antisemitismo: “L’antisemitismo non è infatti un di più ideologico ma è il cardine del nazionalsocialismo”. No, non lo è. E con Schmitt e Jünger “più”antisemiti: “Cade così anche quella differenza che segnava ancora per molti la distanza di Heidegger ad esempio da Carl Schmitt o da Ernst Jünger”. Schmitt e Jünger non erano così tedeschi, anzi, sono fra i pochi tedeschi del Novecento con gli occhi aperti.
Alla fine lo smalto si offusca. Con l’assunzione di Heidegger, nazista, antisemita e tutto, nell’ebraismo, non solo nella metafisica. Con Zarader, “Il debito impensato”, assoldandolo non solo alla Kabbalah ma su tutta la linea: “La componente ebraica, passata sotto silenzio, ritorna, senza essere identificata, in punti strategici, tornanti decisivi del cammino di Heidegger: la concezione del linguaggio, quella della storia, il tema dell’interpretazione, della sottrazione, del nulla, dell’abbandono, perfino della temporalità”. Heidegger non esce dalla metafisica che vuole espugnare e più precisamente dalla metafisica ebraica. Che va bene, ottimo, in un taglio ironico, satirico, dissolvente, per fare bum con la bocca. Altrimenti suona essa stessa paradossale – tutto si può dimostrare, ma a un costo: il nazionalismo filosofico è arduo (faticoso, greve), anche se è molto tedesco.
Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, Bollati Boringhieri, pp. 367 € 20

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