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venerdì 8 marzo 2019

Il mondo com'è (369)

astolfo


Eccezionalismo americano – È più forte nella proiezione esterna, anche in questo lungo dopoguerra che gli Stati Uniti hanno controllato, se non dominato – il figurarsi la storia e la politica americane come diverse e migliori.
Si discute ora, con la presidenza Obama e di più con quella Trump, se l’impero americano, o pax americana, sia alla fine. Di fronte all’emergere della Cina come potenza globale, presente finanziariamente, commercialmente e industrialmente, se non militarmente, in tre quarti del globo, potenza dominante in Africa, e influente in Asia e in Europa, alla pari con le multinazionali americane, o appena sotto di esse ma in ascesa. Un tramonto di cui la presidenza Trump rappresenterebbe un colpo di coda.
Non è la prima volta che se ne discute. Almeno in altre due epoche, in questo dopoguerra che ha visto negli Stati Uniti la potenza dominante, se ne è discussa, e  anzi celebrata, la fine. A cavaliere del 1960, quando l’Unione Sovietica sembrò sopravanzare gli Stati Uniti nella corsa allo spazio. E un decennio dopo, con la crisi nei campus e le rivolte dei neri, la sconfitta in Vietnam, e la crisi del dollaro. Ma se ne discute fuori, negli Stati Uniti no, se non eccezionalmente, in ambiti ristretti. Negli Stati Uniti è proprio in riguardo alla politica estera che domina il sentimento dell’ “eccezionalismo americano”, di un destino diverso e migliore che nelle storie pregresse del resto del mondo: la crisi dell’imperialismo americano non si discute perché non c’è la nozione di imperialismo, non degli Stati Uniti.
L’unico a interrogarsi oggi su “passato, presente e futuro degli Stati Uniti”, sotto il titolo “L’impero in ritirata”, è il professore Victor Bulmer-Thomas, che però è inglese, direttore di Chatam House, il forum londinese delle relazioni internazionali – ed è specialista dell’America Latina, con un po’ dell’acredine naturale in quell’area verso gli yanquis. Per la storiografia, la scienza politica e i media americani il tema appare invece bizzarro: l’imperialismo è una cosa europea, occupazione di territori, sfruttamento delle risorse, dominio su popolazioni estranee. In America, subito da quando l’imperialismo è nato, con la guerra contro la Spagna sul finire dell’Ottocento (tralasciando l’espansione al Sud e all’Est, ai danni essenzialmente del Messico, e l’“apertura” forzata del Giappone al commercio nel 1854, dieci anni dopo la guerra al Messico, con le “navi nere” a vapore del commodoro Perry che spaventarono gli isolani), con Theodor Roosevelt e sempre poi, si usano altri termini e concetti ma contestando l’imperialismo.
Si parla di leadership transatlantica, difesa della democrazia, politiche della libertà, internazionalismo, anche di espansionismo e di politiche di grandezza, ma senza un progetto imperiale dietro, la costruzione di un impero, e non a fini imperialistici, di sfruttamento. Con effetti, anzi, semmai negativi per gli stessi Stati Uniti. Uno studioso della politica estera americana a partire dal 1789, David Hendrickson, collaboratore di “The Nation”, il “Manifesto” americano, lo teorizza in “Republic in Peril” che ora pubblica: l’America è bloccata, la democrazia vi è a rischio, a causa dell’interventismo estenuato, in atto da quasi mezzo secolo, in ogni area del mondo.
Entrambi, sia Bulmer-Thomas che Hendrikson, ritengono che l’America si stia restringendo, sui tre piani, economico, politico e militare, culturale. Ma entrambi, post- o pre-trumpiani, affermano anche che l’America può rafforzare la presenza internazionale riducendo gli impegni militari fuori del territorio nazionale, impegni “overextended”.
Femmicidio – Era legale fino a non molti anni fa, sotto il titolo delitto donore, e tuttora lo è in larghe parti del globo. In Italia fino al 1981, quando infine fu abolito a seguito di due referendum popolari, quello a conferma del divorzio nel 1974 e quello, nello stesso 1981, a conferma della legge del 1978 che introduceva l’aborto. Due conferme a larghissima maggioranza, del 60 e dell’85 per cento rispettivamente, a prevalenza femminile. Nonché a seguito della riforma del diritto di famiglia introdotta nel 1975 dal primo centro-sinistra. L’assassinio di una congiunta, moglie o fidanzata, figlia, sorella, perfino nuora e cognata, i suoceri avevano anch’essi titolo a uccidere, e i fratelli del marito-fidanzato, per violazione di un “codice d’onore” a carattere esclusivamente sessuale. Non se la congiunta era ladra per esempio, o violenta. Il “codice d’onore” puniva l’adulterio, anche solo in pensieri e parole, il tradimento della promessa, la condotta “immorale”. Sulla base unicamente del convincimento soggettivo della persona “offesa”, il congiunto maschio, anche a dispetto dell’evidenza contraria. E comunque senza necessità di un giudizio previo: molti casi sono celebri di delitti d’onore anche estremamente crudeli del tutto immotivati.
Stendhal, curiosone delle cose italiane, ne racconta uno specialmente atroce ne “La duchessa di Paliano”. La duchessa Violante (da nubile variamente nominata: D’Alife, Cardona o Diaz-Garlon, comunqne figlia del conte ispano-partenopeo Antonio D’Alife e di Cornelia Piccolomini) viene garrotata dal fratello freddamente, cambiando la corda perché la prima non era solida, su giudizio e ordine del marito, Giovanni Carafa. Il quale però non era convinto del tradimento della moglie, madre dei suoi due figli e incinta di lui al sesto mese. E aveva già personalmente ucciso la testimone d’accusa, Diana Brancacci, una domestica gelosa, di cui aveva scoperto la fallacia.
La duchessa fu garrotata nel racconto che Stendhal ha tratto dagli atti dell’inchiesta che il papa Pio IV, nemico dei Carafa, successivamente ordinò sull’accaduto. Ma secondo altre testimonianze al processo, che Adriano Prosperi ha esumato nella sua biografia del cardinale Carlo Carafa, fratello del duca Giovanni, fu strangolata con le mani dallo stesso cardinale, avente diritto in qualità di cognato. In margine al racconto, sul manoscritto della cronaca cinquecentesca, Stendhal ha annotato: “L’onore romano esigeva, nel 1560, che i parenti di una donna leggera, padre, figlio, marito, suocero, la facessero perire”. E cita i casi di “Maria dei Medici (non la regina)”, ma non dice quale, “la vecchia principessa Santacroce, la duchessa di Paliano”.   
Nel racconto Stendhal ricorda che “il principe  Orsini”, Paolo Giordano, “sposò la sorella del granduca di Toscana “, Isabella, “la credette infedele e la fece avvelenare nella stessa Toscana, col consenso del granduca suo fratello. Parecchie principesse del casato dei Medici sono morte così”. Stendhal sbaglia i particolari ma il fatto c’è. Isabella era figlia e non sorella di Cosimo I dei Medici - e di Eleonora di Toledo, la figlia del viceré spagnolo a Napoli. Sposata a quattordici anni, lui di quindici, “celebre per la sua bellezza, la sua cultura e la sua saggezza e lodata nelle opere di moltissimi artisti e letterati” (wikipedia), fu strangolata venti anni dopo, nel 1576, personalmente da Paolo Giordano, non fatta avvelenare. Senza l’accordo di Cosimo I, che intanto era morto. Paolo Giordano Orsini persevererà, facendo assassinare sette anni dopo a Roma, dove si era rifugiato per sfuggire alla giustizia granducale, il marito di Vittoria Accoramboni – un’altra storia avvincente delle “Cronache italiane” di Stendhal – per farsene l’amante senza ostacoli. Il marito essendo nipote del papa regnante Sisto V, Orsini dovette lasciare anche gli Stati pontifici, e si portò appresso l’amante. Che pochi mesi dopo la sua morte, nello stesso 1585, restò vittima di un delitto d’onore, assassinata da Ludovico Orsini di Monterotondo, per vendicare il fratello Roberto morto in un faida con Paolo Giordano. 
Per onore s’intende nelle legislazioni che ancora lo consentono, in molti paesi islamici, un valore rilevante per la stabilità sociale, e nei rapporti familiari. Dando credito paradossalmente alla donna di un valore decisivo per la stabilità familiare e sociale, mentre non lo è la dissolutezza anche spinta  dell’uomo, marito o padre. Di fatto l’onore che il codice d’onore protegge(va) è la reputazione, non l’ordine sociale: l’opinione della comunità, compresi il pettegolezzo e la calunnia.

Moro – Non c’è solo Otello, il Moro di Venezia che Shakespeare trasse dagli “Ecatomiti” di Giambattista Giraldi Cinzio. La pratica era diffusa dopo la tratta degli schiavi anche in Europa di fare figli evidentemente con donne nere. Famoso è il caso di Puškin, che aveva tratti negroidi derivati da un nonno. E di Dumas. Ma già prima della tratta c’erano casi di commistione razziale. Il più noto e evidente è Alessandro dei Medici “Il Moro”, che il Bronzino ha ritratto senza possibilità di mascheramenti. Alessandro fu “signore di Firenze” dal 1523 al 1527 e dal 1530 al 1532, quindi duca di Firenze, il primo Medici a essere insignito di un titolo nobiliare, dal 1532 al 1537, quando venne assassinato dal cugino Lorenzino dei Medici. Era figlio riconosciuto di Lorenzo dei Medici duca di Urbino, quindi nipote in linea diretta del Magnifico. Ma figlio naturale probabilmente del cardinale Giulio dei Medici, che poi sarà papa Clemente VII. Governò Firenze dopo la sconfitta e la capitolazione della Repubblica, cui Clemente VII riuscì con le armi spagnole di Carlo V. Da questi insignito per matrimonio, e per le mene del papa, del titolo nobiliare, che faceva di Firenze una signoria. Cresciuto alla corte imperiale spagnola di Carlo V, a Bruxelles e a Madrid, ne portò gli usi a Firenze, fino a trasgredire le regole della resa della Repubblica, che prevedevano il mantenimento delle istituzioni rappresentative – il disegno signoriale sarà perfezionato dal successore Cosimo I, lontano cugino del “Moro”. Alessandro fu assassinato senza motivo da Lorenzino, che ne era l’amasio, se non per gelosia. Era stato sposato da pochi mesi a Margherita d’Asburgo, la figlia naturale legittimata di Carlo V con una arazziera fiamminga.
Prima di Alessandro dei Medici era stato Moro celebre uno Sforza, Ludovico, quello che meglio illustrò Milano, governando la città, come reggente e poi come duca, per gli ultimi venti anni del Quattrocento, patrono di Leonardo e altri artisti, committente dell’“Ultima cena”. Sotto l’“impresa” personale: “Per Italia nettar d’ogni bruttura”.
Ludovico fu figlio, il quarto, di Francesco Sforza, il condottiero, anche lui di colorito scuro, tratti marcati, capelli crespi neri, nato a Cigoli, nel comune di San Miniato in Toscana, non si sa come. Francesco Sforza, primo duca di Milano, ebbe cancelliere Cicco Simonetta, il “messer Cecco” di Machiavelli, “Istorie fiorentine”, cap. XVII, “uomo per prudenza e per lunga pratica eccellentissimo”, versato in greco, latino, ebraico, francese, tedesco e spagnolo, che gli procurò il titolo nobiliare a alla discendenza, la moglie Polissena Ruffo, castellana pro tempore del suo paese, e a Milano fece convenire il meglio delle arti, tra i pittori Antonello da Messina, che ora la città celebra, tra i musicisti Joacquin des Près.
Il paese di Simonetta era Caccuri in Calabria, un piccolo borgo della Sila. Francesco “Cicco” era nato in famiglia di cui non si sa nulla, allevato dai monaci basiliani, e aveva tratti anche lui marcati.


astolfo@antiit.eu

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