Cerca nel blog

venerdì 17 maggio 2019

L’ignoranza degli italiani e il maestro Pagnoncelli

Pagnoncelli prende le misura dell’opinione pubblica. Cosa vede l’opinione pubblica, dove va l’opinione pubblica sono i due temi del suo saggio. In Italia, beninteso. La risposta è che non va da nessuna parte, ignorante e incontinente. Se non a cozzare su montagne di scemenze e bugie, che ingurgita bulimica e scriteriata.
Quanti sono gli immigrati, quanti i bamboccioni, quanti i disoccupati, o gli obesi. Peggio per le cose più remote: la crescita, o decrescita, demografica, le donne in politica, le connessioni a internet, l’andamento del pil, cioè della ricchezza. Su qualsiasi cosa le idee sono strampalate. Non c’è fatto o evento che gli italiani sappiano, o perlomeno percepiscano, nella misura e nel modo giusti. Fin nella pratica della religioni sono confusi, e naturalmente sulla vita nei campi, che ancora ci sono.
Gli italiani sono incompetenti e stupidi. Non c’è cosa su cui abbiano una mezza idea giusta. Credono a qualsiasi cosa, e preferibilmente a quella sbagliata. Superano perfino gli americani nella credulità. Questa la sintesi di Pagnoncclli nel risvolto: “Un’indagine condotta in 33 Paesi su un campione di oltre 25 mila individui consente di misurare le percezioni dei cittadini su aspetti sociali, demografici ed economici. Le discrepanze tra percezione e realtà consentono di creare un «indice di ignoranza» che classifica i Paesi in relazione allo scollamento tra percezione e realtà. E l’Italia questa volta vince, è il primo paese del mondo, il più credulone di tutti, prima degli Stati Uniti, per credenza nelle cose sbagliate”.
Non è vero, ma ammettiamo che sia vero. Manca l’essenziale: il perché, uno qualsiasi. La realtà su misura degli italiani” è il sottotitolo. E il sarto? Manca il sarto, in questa disamina dell’opinione pubblica. Meritoria perché il tema da noi è negletto, la nostra scienza politica è al riguardo cieca o sdegnosa. A differenza che in altri paesi, negli Stati Uniti a partire da Walter Lippmann un secolo fa, e in Germania da Heidegger, Marcuse, Habermas. Ma poi Pagnoncelli non fa passi avanti, e anzi ne fa curiosamente a gambero, più di uno.
Opinione pubblica
Si può dire l’opinione pubblica ciò che l’elettore sa e pensa. È in questo senso che essa è la cerniera della vita democratica. Ne è il fulcro, ciò che le dà senso e forza. È per questo che è necessario sapere chi la conforma, come e per quali esiti, su quali presupposti. La sua formazione è il problema fondamentale dell’opinione pubblica.
Trascurare la formazione dell’opinione riporta Pagnoncelli alla stessa soglia dei nostri scienziati politici. I quali non vi si cimentano per un motivo non segreto: nessuno si vuole “inimicare” i media. Perché una critica dell’opinione pubblica sarebbe – dovrebbe essere – una critica dei media, non dei lettori\spettatori, che ne sono le vittime. Gli italiani non sanno, perché non sanno dove sapere. Anche ammettendo che l’opinione pubblica sia la “gestione del consenso”, come vuole Pagnoncelli.
La cosa curiosa è che Pagnoncelli, pure sensibile e simpatico, è contestabile sul suo stesso terreno. Gli italiani sono volubili, dice. Sono contraddittori – vogliono una cosa e il contrario. E queste sono facezie sociologiche. Che forse fanno giornalismo, ma non buono. È il limite dei giornalisti di complemento. Quelli che, come Pagnoncelli, scrivono per i giornali come specialisti, e quindi si ritengono autorevoli, senza però i vincoli redazionali che soli fanno il buon giornalismo: l’accuratezza, l’affidabilità, le fonti sicure. Vive di sondaggi, e non ci dice che la risposta è a metà nella domanda. Se uno mi domanda: la popolazione carceraria in Italia è di immigrati al 30, al 50 o al 70 per cento, e io rispondo al 50, sono un cretino (sono al 40)? Ed è uno scandalo che gli immigrati siano detti in Italia uno su quattro mentre sono uno su dieci, se il sondaggio si fa tra la popolazione urbana, specie quella che lavora e quindi prende i mezzi pubblici? E perché la discrepanza sarebbe segno di razzismo, ignoranza, stupidità?
Sindrome leghista
Il mite Pagnoncelli è severo, incattivito. Succede a Milano, la sociologia vi è molto soggettiva – la sindrome leghista. Del resto, si capisce chiaro benché non detto, è col suo compaesano Salvini che ce l’ha. Nell’ambito della faida ambrosiana, si può rilevare che s’intende l’opinione pubblica un’interazione di obiettivi e convincimenti con segno positivo, per un di più e non un meno, di libertà e opportunità. Ma è anche vero che il populismo, che invece marcia in senso contrario, viene incontro ad aspettative frustrate, non le suscita né le stimola. Non sono Grillo o Salvini che mettono in discussione l’euro e l’Europa, sono l’euro e l’Europa che suscitano e alimentano i Grillo e i Salvini, almeno per questo aspetto. Non è Trump che mette in discussione la globalizzazione, è la globalizzazione che mette in discussione se stessa, avendo suscitato per metà del mondo, lo stesso Occidente che l’ha promossa, un arretramento del livello di vita, e anche del reddito, della stragrande maggioranza della sua popolazione, un impoverimento generale, con pratiche in troppi casi non regolari, di protezionismi mascherati e di dumping. Per non dire degli effetti collaterali, sempre della globalizzazione, che sempre la stragrande maggioranza finisce per pagare, direttamente o indirettamente: i carissimi raid finanziari, ora anche sulle banche, le superretribuzioni di tutte le posizioni costituite, manageriali e istituzionali (in Italia alcune migliaia di posizioni nella Funzione Pubblica), l’impunità del crimine economico, e quindi la corruzione endemica, sistemica.

Fin qui la filippica di Pagnoncelli si può dire cosa loro, di Milano. Il più però resta da fare, nel suo ambito di ricerche.
L’italiano in realtà è molto critico. Si può anche dire troppo. E più smagato dei suoi concittadini europei, molto di più, troppo. Pagnoncelli è mai stato, col suo sondaggio a 14, in Germania, in Olanda, in Belgio, nella stessa Francia sorella? I media vi sono un minimo più informativi. E ci sono ancora partiti che mediano i media. Ma l’“opinione pubblica” come la intende lui, i mood e i sentiment dell’“uomo della strada”?  
Adesso conta la vociferazione? Sì. Dell’italiano razzista. Mentre non lo è – Pagnoncelli è stato in Germania, etc., fuori Chiasso? Pur non essendo stato preparato al bisogno di immigrazione, da una parte (migranti) e dall’altra (Sistema Italia). E pur essendo agli inizi e per due decenni, quando l’immigrazione ha preso piede in Italia, esposto alla parte peggiore di questa: prostituzione, femminile e maschile, spaccio e, nell’accezione migliore, commercio ambulante abusivo, magari di prodotti di Napoli, oltre ai galeotti balcanici liberati dal comunismo, in Albania, Bosnia, Serbia e altrove.
L’italiano non sopravvaluta i bamboccioni – qualche ministro sì, ma non l’“italiano medio”. E emigra volentieri, anche solo per curiosità o per uscire dalla famiglia – fa una “fuga di cervelli” quando serve a fare cronaca di (bella) gioventù che prospera a Manchester o Düsseldorf, o altro paradiso transalpino. Ma è inutile rivedere il tutto, della vociferazione purtroppo Pagnoncelli è parte.
Nando Pagnoncclli, La penisola che non c’è, Mondadori, pp. 128, ril. € 17

Nessun commento: