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sabato 30 gennaio 2021

Consigli di lettura di Virginia Woolf, non ortodossi

“Dove dobbiamo ridere leggendo il greco?”. Sono tanti i problemi: “Non ci sono scuole, né predecessori né eredi”. Anzi, “è perfettamente inutile leggere traduzioni dal greco”. La traduzione non può che proporci “echi e associazioni”. E non è possibile rendere “gli accenti più lievi, il battere e il levare delle parole”. E “dove dobbiamo ridere leggendo il greco?” Ma poi ci prova, tanti problemi aguzzano l’ingegno.
“Quella greca è la letteratura dell’impersonale”. Ma “è anche la letteratura dei capolavori. Non ci sono scuole, né predecessori né eredi” – il che non è vero, ma dà l’idea: non si può farne una “storia della letteratura”. Con un’eccezione: “Almeno una generazione in quel tempo fortunato ha prodotto la massima esplosione di scrittori”.
In inglese il titolo del saggio suona “sul non sapere il greco”, è cioè un invito a un’indagine.  Ma si presenta come una lettura dei tragici greci, ambiziosa e confusa – la mancata traduzione delle citazioni greche non aiuta. Sul presupposto che “non sappiamo nulla” dei greci, come parlavano, come recitavano. Sappiamo solo di loro strane morti: Euripide sbranato dai cani, Eschilo colpito da un sasso. Woolf intanto li situa geograficamente: stanno al Sud, avevano luce e calore, vivevano un po’ come si vive ora in Italia, con le piazze e i passeggi, per cui “i piccoli fatti di ogni giorno vengono discussi in strada piuttosto che in salotto, e diventano teatrali”, roba da “persone loquaci”, con “quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di spirito e di lingua perculiari alle razze del Sud”. Col che non ha risolto nulla, ma spiega la funzione del coro. E poi: un scrittura senza riscritture. “L’autore doveva pensare più all’insieme che ai dettagli”. Il suo pubblico era  “un popolo come quello ateniese, che giudicava a orecchio seduto in un teatro all’aperto, o ascoltando una diatriba nella piazza del mercato, molto meno incline di noi a spezzare le frasi e ad apprezzarle slegate dal contesto”.
Quattro saggi umorali, ma per questo anche originali, qualche dubbio o problema lo lasciano. Quanto sono fruibili le letterature “altre”, quella inglese per esempio per gli americani,  per i letterati americamo, perfino per Henry James. O quella russa per gli inglesi – e ogni altro, è da supporre: bisogna sapere molte cose prima di entrare in Cechov, Dostoevskij, Tolstòj – bisogna scoprire l’“anima” per i primi due, per Tolstòj la cosa è più complessa.
Peggio è con gli elisabettiani, la cui lettura viene ribaltata nel secondo saggio in più punti: che cosa sono, tirando le somme, e chi era chi, e chi doveva a chi. “Ci sono, bisogna ammetterlo,  alcune aree davvero straordinarie nella letteratura inglese, una delle quali è quella giungla, foresta o landa disabitata che è il dramma elisabettiano”. Peggio, “per il lettore comune una sorta di ordalia, un’esperienza traumatizzante che lo riempie di domande e lo tormenta di dubbi, deliziandolo e al tempo stesso affliggendolo”. Drammi all’apparenza “meravigliosi”, pieni di cavalieri, duchi e damigelle, che però “passano l’esistenza tra intrighi e delitti, si vestono da uomini se sono donne, da donne se sono uomini, vedono fantasmi. Perdono il senno e muoiono in grandissima profusione alla minima provocazione, proferendo – mentre cadono (ma non è come sarà all’opera? n.d.r.) – imprecazioni dal superbo vigore o elegia di disperata ferocia”. Ma, poi, sono “per lunghissimi tratti così intollerabilmente tediosi”. E uno: “Gli elisabettiani ci annoiano perché i loro miti sono tutti duchi, le loro Liverpool tutte isole mitiche o palazzi genovesi” E due: “Gli elisabettiani ci annoiano perché soffocano la nostra immaginazione, piuttosto che darle da lavorare”. Anche se, con tutti i loro limiti, sono lontani “dal tedio inflitto da un’opera teatrale del XVIIImo secolo”. Col recupero di John Ford, “Peccato che sia aan puttana”, con annotazioni, alle pp. 42-43, che sono note di regia, di programma di sala.
 “Come leggere un libro?”, “saggio letto in una scuola, il quarto saggio, non aiuta molto. Ma sì in un punto importante: lasciare che il rapporto col libro – stiamo parlando del romanzo, anche della poesia – si stabilisca direttamente, non per consiglio o imposizione del discente. Un’idea non male, specie per le letture estive consigliate.
Virginia Woolf, Non sapere il greco, Garzanti, pp. 91 € 4,90

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