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domenica 24 gennaio 2021

Come Santo Stefano d’Aspromonte conquistò New York

Alcuni episodi di mafia calabrese a New York, e nei paesi del reggino di provenienza, ricostruiti con puntigliosi, sorprendenti, scavi archivistici, nazionali e americani (questi, in particolare, della stampa locale): la lettura è faticosa, tanto la ricerca è dettagliata – e gli autori, giustamente, non buttano via nulla. Tratto d’unione, in un  pulviscolo di informazioni documentarie di persone e fatti minori, la famiglia dei Filastò, di Santo Stefano d’Aspromonte, cugini dei Musolino del brigante. In particolare di Francesco “Frank” Filastò, che ha occupato per oltre mezzo secolo le cronache giudiziarie a New York e a Reggio Calabria, assassino probabile di Joe Petrosino a Palermo, e poi la politica al suo paese d’origine – il genero Mangeruca sarà sindaco per due mandati dopo la guerra e realizzerà il resort residenziale e sciistico di Gambarie, comprensivo di un Grand Hotel, con vista fantasmagorica sullo Stretto e, nei giorni buoni, fino all’Etna, quando il vulcano aveva ancora nevi perenni.
Una storia, sembrerebbe, d’altri tempi. La neve ora Gambarie deve farla artificialmente. L’Etna non è più bianco la gran parte dell’anno. E comunque non si vede: il business dei vivai e della forestazione a oltranza ha tolto la vista, e anche la luce. O è questa una trasformazione, un secondo o terzo tempo, della stessa partita, del malaffare? Senza più pugnale oggi, come usava – faceva usare – Frank Filastò, ma ugualmente senza scampo. Antonio Musolino, il fratello minore del bandito, sarà ucciso a Tre Aie, località rinomata di Gambarie, in piena stagione estiva, il 2 luglio del 1961 – da ignoti, naturalmente.
Scavo
Fine Ottocento e primo Novecento, fino alla seconda guerra, dei malavitosi, i “picciotti”, la “picciotteria”, di un piccolo triangolo in Calabria, da Reggio nord fino a Solano (il paese del matriarcato) e Santo Stefano d’Aspromonte, il paese del brigante Musolino, e delle famiglie con lui imparentate, soprattutto i cugini Filastò. Su cui una formidabile opera di ricerca viene svolta, negli archivi comunali, parrocchiali, giudiziari, anche americani, cartacei e online (molta documentazione è reperibile negli Stati uniti online, ma bisogna saperla cercare). Con una prefazione di Nicola Gratteri, il giudice scrittore, coautore di molti libri di mafia con Nicaso. Con un voluminoso corpo di note, e un indice dei nomi. Col recupero di ogni genealogia e gesta di miriadi di (piccoli) delinquenti.
C’è anche l’America sullo sfondo. New York soprattutto, teatro delle gesta, cassa e rifugio dei malavitosi. Specie nelle due prime decadi del Novecento, quando la malavita si abbarbicò a Tammany Hall, la “macchina” corrotta e anche assassina del partito Democratico che dominava la metropoli, pagandosi con gli appalti, la prostituzione, l’azzardo e l’alcol. C’è la Pennsylvania prossima allo stato di New York. C’è molto Paterson, per la prostituzione, luogo ora memorabile di poesia (William Carlos Williams, Jim Jarmush).  
Dai tempi di Pontieri non si ricorda tanta acribia archivistica applicata a persone e cose in Calabria. Peccato che si applichi alla storia criminale, e di piccola, benché diffusa, criminalità: taglieggiamenti, specie dei lavoratori calabresi emigrati, come ora avviene nel Mediterraneo tra africani, e “traffico delle bianche”. Il sottotitolo della ricerca è “1880-1956. Da Santo Stefano d’Aspromonte a New York. Una storia di affari, crimine e politica”.
Stato-mafia
Una prima parte è attorno al brigante Musolino. Che a processo a Lucca ammalia tutti, anche Pascoli e D’Annunzio. La fama fu anzi mondiale, come documentano gli autori: “Musolino, the famous Italian Brigand” titolava il “New York Times” il 6 ottobre 1901 l’articolo bene informato di apposito inviato speciale, e subito dopo, il 20 ottobre, “the most famous”. Di cui gli autori fanno un caso di Stato-mafia come ora è d’uso, prima di Giuliano-Pisciotta, Riina-Provenzano, Messina Denaro. Al capitolo “L’ordinanza «liberi tutti»”, e al successivo “La campagna elettorale del «brigante» Musolino”. L’inviato del “Mattino” al processo di Lucca scrive nel 1902 che “il governo si servì di Musolino, dell’ascendente formidabile che egli esercitava, della rete di interessi che le sue intimidazioni e la sua leggenda di inflessibile e fulmineo punitore aveva distesa, se ne servì a scopo elettorale”. Dapprima il governo del generale Pelloux, 1898, poi il ministro dell’Interno Giolitti nel governo Zanardelli.
La questione – Giolitti e i prefetti – era stata già indagata sulle fonti da Spadolini in “Giolitti e i cattolici”, 1960. Ma in contesto politico e non mafioso. Il precedente, purtroppo, non spiega il presente. Attardarvisi non risolve, e áncora l’antimafia a modelli antiquati – non mancano nemmeno Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Come se i mafiosi fossero scemi. O nessuno li conoscesse.
Antimafia?
Restano sempre da indagare le cause di questa criminalità, e la relativa impunibilità. Gli assetti socio-psicologici, quelli reali e attivi anche se complessi - un po’ come Adorno fece i totalitarismi e il razzismo, “La personalità autoritaria” - senza modelli o paraocchi, fuori dagli schemi. Fuori quindi dalle bolse dialettiche ricchi\poveri, borghesi\lumpen. Di tanta diffusa delinquenza il volume documenta che molti sapevano scrivere, seppure sgrammaticato, il che un secolo fa non era frequente, qualcuno perfino in inglese.
Per il lettore è anche interessante che gli stessi nomi - le stesse famiglie allora criminali? - negli stessi luoghi, negli Stati di New York e New Jersey, perfino agli stessi indirizzi, con proiezioni a Chicago e in Pennsylvania (qui ora quasi scomparse), abbiano prosperato legalmente, per capacità e applicazione, Bueti, Filastò, Chirico, Costa. Mentre per associazione a delinquere sono a processo nel 1929 a Locri gli stessi nomi di San Luca oggi, Pelle, Nirta, Strangio e Trimboli: hanno quindi continuato – hanno potuto continuare – a delinquere per un secolo.     
Un volume denso, di storia, non la solita sveltina sui mafiosi, che fanno tanto mercato dopo “Gomorra”. Documentato, anzi con uso fin troppo esteso delle pezze d’appoggio archivistiche. Con la seriosità degli storici. Con qualche trascuratezza, se si tratta di fatti o aspetti che non rientrano nella trattazione di programma, che però la narratologia avrebbe consigliato di non trascurare. Un “modernissimo piroscafo” denominato “Calabria” ricorre a un certo punto per viaggi in Nord America. Di chi, quando, da dove? San Luca non è “sede del santuario della veneratissima Madonna di Polsi”, ne dista un paio di ore, di buon passo. Si rileva di passaggio, incidentalmente, l’atto di nascita della parola ‘ndrangheta, nella denuncia del maresciallo dei Carabinieri Delfino all’autorità giudiziaria il 4 dicembre 1923: “Da più tempo esisteva una vasta associazione a delinquere denominata «Ndranghiti»” - che qualcuno, precisano gli autori, “chiamava «drancati» o anche «dranghita»”. Molti elementi trascurati sono passibili di sviluppi. Si sarebbe certamente voluto sapere di più di “donna” Angelina Nostro, “l’angelo di Broome Street”, moglie di malavitosi, filantropa, “la munifica scillese tammanyta imparentata con Frank Filastò”, che ebbe nel 1924 funerali si direbbe “di Stato” a New York, tanto furono imponenti e ben frequentati.    
Terra perduta
Leggendola quando alla Rai si dice la Calabria “terra perduta” e “irrecuperabile”, la ricerca colpisce per un assetto che si vuole solo negativo. Come un cannocchiale senza panoramica, puntato sui punti oscuri. Non c’è altro calabrese che picciotto. La drogheria-banca è covo di malfattori, mentre è istituzione popolare – tra l’altro rinverdita per gli immigrati in Italia dai tanti alimentari e call center asiatici, per telefonare, trasferire i risparmi, fare le pratiche (ancora viva nella stessa Italia, per es. a Roma, dal droghiere o con la cassa peota). Chirico, “Due boss calabresi a Manhattan”, è uno incensurato, uno dei tanti piccoli o microborghesi che pullulano nei piccoli commerci degli emigrati, dalla manovalanza al commercio minimo e piccolo.
L’emigrazione è sempre miseria e lamento, mentre era anche avventura, coraggio, decisione di cambiare e di innovare. Ed era regolata. Una cosa normale ma da sottolineare, a fronte oggi dell’inanità europea perfino miracolosa. Che tanti emigranti, decine di migliaia ogni anno, viaggiassero con visto e biglietto, sia pure pagato da parenti o amici qualche volta non raccomandabili. Con emigranti che avevano la cittadinanza dopo appena sei anni di residenza negli Stati Uniti - dove i nati erano per legge cittadini.
Con lo sguardo purtroppo in negativo che tanta pubblicistica, l’unica che se ne fa, proietta sulle origini, il nome, i luoghi, la società – “basta la parola” di una vecchia pubblicità, e subito si scatena una sorta di dilettazione nel cinismo. Mentre documenta perché la criminalità diventa cronica e diffusa: quando le Autorità, come le fonti prospettate dagli autori dimostrano, si limitano a registrare passive i fatti e le voci (testimonianze, più o meno anonime), e il crimine non viene in realtà contrastato, il sopruso, il pizzo, l’aggressione. Sospettato, temuto, ma non confrontato, non subito, con la stessa o maggiore forza. Ogni denuncia viene recepita e commentata senza mai intervenire, come fatto privato.
È il tipo di racconto che Gay Talese ha immortalato nella memoria del padre, “Ai figli dei figli”, e nella cronistoria dell’ascesa e declino dei mafiosi siciliani Bonanno, “Onora il padre”: non c’è il male a prescindere, di cui non ci occuperemmo, bastano i Carabinieri, c’è un insieme di eventi, personaggi, concause. Ma questo effetto è mancato. Perché ci occuperemmo di pochi, ignoti, pluriassassini della periferia di Reggio Calabria se non in un contesto? L’effetto è invece sconcertante, di tanto impegno professionale, perfino scientifico, oltre che naturalmente d’intelligenza e capacità, profusi su personaggi deteriori e probabilmente marginali, che assurgono a unici esponenti di comunità.
Antonio Nicaso-Maria Barillà-Vittorio Amaddeo, Quando la ‘ndrangheta scoprì l’America, Mondadori, pp. 399, ril. € 25
 

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