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giovedì 4 febbraio 2021

La “dolce vita” sessant’anni dopo - Fellini a Volterra

Dolce come la “dolce vita”. Un film dichiaratamente felliniano. Un omaggio, quasi un remake - al femminile invece che al maschile – sessant’anni dopo. Il quadro di una persona – e una cultura  (storia)? - al tramonto: impaurita, oltraggiosa, confusa.
La poetessa polacca insignita del Nobel, che vive in Italia dal 1981, dallo stato d’emergenza di Jaruzelski, nella campagna di Volterra, con un marito italiano servizievole, una figlia sola e i figli di lei, con i quali conversa in polacco, tirannica e snob, visitata ora e omaggiata da giornalisti, intellettuali, il sindaco, il maresciallo dei Carabinieri, tra eccentricità, voglia di scandalo, paura, dell’età, dell’improvvisa inadeguatezza, un po’ trasognata, un po’ bevuta e\o fumata, mentre vive un risveglio del corpo col giovane macellaio egiziano a Cecina Porto, dichiara il suo rifiuto del premio il giorno di un attentato islamico a Roma che ha distrutto una piazza e fatto molte vittime, dichiarando l’attentato stesso “un’opera d’arte”. La sua uscita genera la psicosi nel paese: è d’improvviso “marocchino” e come tale pestato dai suoi compagni il figlio del maresciallo dei Carabinieri, perché di madre siciliana. Al giovane egiziano viene bruciato il negozio. E il giovane rifiuta brutale la solidarietà della donna - “noi siamo venuti qui a cercare la libertà” - e la respinge - “tanto lo sapevi, che era una storia senza domani”.
Prima della conferenza la donna, al solito svagata e snob, ha lasciato una lettera chiusa al marito. La lettera lo congeda, perché non dà “segni di vita” e “vive in ciabatte”. Il marito e la figlia decidono allora di lasciarla, andandosene a Roma, benché in lacrime, a fare una vita propria. La scena iniziale del salotto intellettuale, in cui si rimemora il Grande Poeta americano che fu rinchiuso a Pisa in una gabbia di ferro, per due accuse, di antisemitismo e di adesione al fascismo, ritorna alla fine fattuale con la poetessa in gabbia a Volterra, dentro una installazione d’artista metallica. Dopo uno scontro con l’onestà. Dopo due scontri: con l’inviato di “Le Monde”, col quale pretende una sua assoluta immoralità d’artista, e col maresciallo suo devoto, che lei schiaffeggia. Con la donna va in gabbia simbolicamente la poesia, l’Europa.
Un film felliniano, dichiarato, dalle due prime scene: il salotto intellettuale, e il vagare mattutino, alla preluce, dell’eletta compagnia - tra i campi piuttosto che nel parco di famiglia. Senza suicidio finale, ma di fatto sì. Un film di immagini, curate, tutte suggestive, dalla sceneggiatura labile, su un soggetto (filo narrativo) tenue. Assottigliato via via di più, lo spettatore legge la storia attraverso le immagini, evaporate, dissolventi, tronche, in brusca successione. Di storie che s’intrecciano, mostrate e  non spiegate, né concluse.
Il racconto è semplice, di un tran tran intellettuale. Di una poetessa emigrata politica, appena insignita del Nobel, al declinare degli anni, sregolata, nel bere, nel fumo, in risveglio sessuale, un ultimo, selvaggio sussulto. A contrasto con una famiglia modesta, da sempre tiranneggiata. Nella morbida campagna toscana, vigile, dall’eloquio semplice, soffuso, delle comunità da sempre stabili. A Volterra - scelta simbolica, sopra la terra che ribolle, sopra il vulcano? In un quadro per il resto quotidiano. I bambini giocano. Gli intellettuali conversano astrusi. Il maresciallo dei Carabinieri è un devoto del genio. Il sindaco si onora di premiare il premio Nobel. L’immigrato lavoratore. La discoteca. Le chiacchiere di paese. Un come siamo sempre stati sconvolto dal terrorismo. E la vicenda prende d’improvviso spessore, volgendo al simbolico: una storia speciale (personale, caratterizzata) di declino diventa espressione di un’Europa altrettanto presuntuosa e confusa - presumendo di sé l’onestà e la superiorità, naturalmente delle buone, ottime, intenzioni.
Un film che avrebbe meritato un’attenzione migliore. Sfortunato come tutti alla uscita, per la chiusura dei cinema, ma letto svagatamente dalla critica. Non è facile rifare Fellini, Borcuch lo fa, a suo agio – con un budget, s’intuisce, molto più modesto di quelli felliniani, ma con un’idea chiara. Un film anche molto “italiano”, non solo per la location. Grandi questioni facendo emergere sotto il fragile, apparentemente casuale, piano delle immagini: l’Europa, la civiltà, la libertà, l’amoralità dell’artista. Nella confusione delle buone argomentazioni – quando le intenzioni, politicamente corrette, sono al disfacimento. Di morale vagamente irridente, reazionaria - ma è la chiave di Fellini. 
Jacek Borcuch,
Dolce fine giornata, Sky Cinema

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