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venerdì 5 febbraio 2021

L'Oriente raccontato, con brio

Un quadro infine veritiero della Cina. Che non è il paese dei balocchi che crede Di Maio, il giovanotto artefice della politica estera dell’Italia – ammesso che la Cina non confonda con quella di Disneyland. La ricostruzione della gestione cinese dell’epidemia, prima e dopo il suo acclaramento, è circonstanziata e terribile – temibile. Ma bisogna arrivarci, nella terza e ultima parte. L’ultima parte è originale - in Italia unica, soprattutto a sinistra – e importante: la Cina politica  è quella che era, prima di Deng e dell’arricchitevi: censurata e militarizzata, col culto del Capo di nuovo, come al tempo di Mao, o di Stalin, e dei processi – ora per corruzione.
Dalla Cina, sappiamo in questa parte, sono venute nella storia soprattutto le epidemie. L’epidemia Antonina, o di Galeno, dal 165 d.C. per circa quindici anni, con una mortalità calcolata al 25 per cento della popolazione – euroasiatica? La peste del “Decamerone”, diffusa in tutta Europa, che fece tra 200 e 400 milioni di morti. La peste bubbonica del secondo Ottocento, 1855-1900. Più altre pesti minori, tipo quella di Milano e quella di Londra. Dall’India viene il colera.
Fino a metà libro è  quello che sappiamo, l’Oriente e l’Occidente che “conosciamo”, cioè gli stereotipi – “Massa e individuo” è il sottotitolo. Con tutto il corredo: il “complesso di superiorità”, la superbia, la storia di tre e quattromila anni, i funzionari hegeliani (mandarini), la stampa, la bussola (la bussola non c’è, ma sì i cinesi che sanno navigare con le stelle – come i fenici, come gli stessi greci delle isole, e anche della terraferma?), la spiritualità (buddhismo, confucianesimo, yoga, anche induismo - un po’), da una parte, dall’altra il colonialismo, naturalmente infame, e sbocciato per caso, sul nulla, fino all’occidentalismo forzoso delle ultime classi dirigenti asiatiche, a partire da Sun Yat Sen, il padre della Cina moderna, cittadino americano, fino a Ho Chi Min, Zhu Enlai, Deng Xiaoping a Parigi, e della figlia del presidente Xi a Harvard. Con atto di pentimento incluso. Sulla scia di opere fantastoriche, da Marco Polo a Montesquieu (ma non ci sono le “Lettere persiane”), Hermann Hesse, in dettaglio, Edward Said, Camille Paglia, e alle storie di due neo americani, Abbas Amanat, “Iran”, e Tamim Ansary, “The Invention of Yesterday”, sul magnifico e munifico Oriente a fronte del bigio Occidente di Temistocle e Trump – manca Kissinger, curioso, poiché è quello che ne sa di più, avendo scoperto la Cina recentemente, nel 1971. Con padre Matteo Ricci e i “riti cinesi”, e con Niccolò Mannucci.
A metà libro si passa alle cose viste, e s’impara molto, divertendosi. Una scoperta: Rampini sa raccontare. Perfino di Marie Kondo. Dei mercatini “umidi” cinesi, di animali vivi. Della mindfulness. Del buddhismo italiano. Della sua scoperta dell’India – e di Modi, il “Trump indiano”. L’elenco sarebbe lungo, ma alla lettura scorre con gusto. Anche lo yoga prende colore, e il nazionalismo ipernipponico, padre degli ipernazionalismi asiatici, cinese, coreano, indiano.
A metà libro Rampini si libera del compitino del corrispondente, o del divulgatore (della passione della Grande Storia, certo, ma di cui purtroppo tutti sanno tutto),  prendendo la staffetta, si direbbe, di Terzani, l’altro corrispondente navigato e viaggiatore curioso in Oriente, politico e non, fiorentino anche lui, con la stessa verve. Quando passa a scrivere di quello che vede o ha visto, ricorda, sente, immagina.
I “due” libri sono un contributo insieme propedeutico e – provvisoriamente - conclusivo alla conoscenza dell’Oriente. E dell’Occidente. L’Oriente non sappiamo pensarlo, ancora, anche l’“orientalista” Rampini, che in rapporto all’Occidente. Ma è l’Occidente a questo stadio a “rivelarsi”, a cominciare a capirsi, se non a mettersi in questione: i tempi della decadenza (Santo Mazzarino) non sono propizi all’autocritica, sono al più dolenti, smemorati - l’autocritica è dei generali al fronte, insomma combattivi.
Senza però fretta, o cortocircuiti. Rampini, come tutti, non valuta, o sottovaluta, il gioco degli specchi cui l’America ha assoggettato l’orbe, da ultimo col mondo virtuale, dei social e gli short message. Mentre il business corre indisturbato – questa non è la terza o quarta volta in una generazione che sentiamo parlare di declino americano, con l’inconvertibilità del dollaro, la sconfitta in Vietnam, la fine delle multinazionali, il crac bancario? È un modello vecchio di quasi un secolo, e non appare cambiato: chiacchieriamo chiacchieriamo, ma allo stato dei fatti? Ora la Cina è al punto a cui era arrivato il Giappone negli anni 1980: vuole sfidare gli Usa? Non può, e non vuole – per ora non può, e il guizzo di cannoniere nel mare della Cina meridionale lo mostra, un gesto impotente: o la Cina cambia regime e torna alla guerra fredda oppure abbozza. Non un’alternativa, in realtà: tornare alla guerra fredda non può, troppi cinesi si stanno arricchendo e sarebbe una Tienanmen continentale.
Fatti i pesi, recuperati i fondamentali, molto però, è vero, resta da dire. I due mondi sono diversi, ma non molto, non più oggi, quanto a stili di vita e di pensiero, la globalizzazione è anche dei gusti e dei modi. La vera diversità resta sempre quella, degli assetti politici, e del rilievo dell’opinione pubblica. Sono però anche diversamente in movimento. In espansione, economica, imperialista, l’Asia. In trincea, confusi, gli Stati Uniti e l’Europa. Le identità, storiche o fantasiose che siano, contano poco.
La globalizzazione, disegnata dagli Stati Uniti post-Reagan come l’arma assoluta per dominare il mondo, passando sopra perfino a Tienanmen, opera come un boomerang: le “catene di valore”, con i cinesi alla soma trent’anni fa, li vedono ora in cassetta, e col frustino. Si può rimediare, ma poco, si è visto con Trump: sì, embarghi, contingenti, eventualmente sanzioni, perché no, c’è Hong Kong ferita aperta, ma non più di tanto. Se la “catena di valore” (produciamo tutto in Cina) è sempre troppo conveniente, l’affarismo non si lascerà sopraffare dalla ragione politica. Anche se l’Occidente si svena – si lascia improsare al centro commerciale, nella finta affluenza, nel mentre che s’impoverisce. E la ragione politica in Cina traballa, se non è già solo di cartapesta, una facciata: che ne sarà domani, presto, della Cina con un miliardo di auto circolanti e due miliardi di conti in banca, il partito Comunista si limiterà a fare da cassiere e da vigile urbano?
Rampini già da vent’anni ammonisce che la Cina non è una potenza, è una superpotenza. Kissinger è più cauto. Ma non c’è da fare conti o sommatorie: la storia è sempre piena di variabili, e in progress . E la Cina, a una seconda occhiata, si direbbe il colosso dai piedi d’argilla. Una piramide rovesciata. Su un partito segreto, che si governa male, si vede, per quanto poco, dalle liquidazioni o condanne a morte - un tempo a base di ortodossia ora a base di corruzione. Tutte le frasi fatte vengono buone per dire che il boom interminabile cinese ha basi instabili, tolto l’arricchimento di produttori e importatori occidentali – l’Occidente nella globalizzazione ha assunto il ruolo della classe “compradora” dei vecchi studi terzomondistici: una borghesia che tanto più si arricchisce quanto più trascura o oblitera ruolo e funzione. Le “catene di valore” si basano peraltro sul lavoro servile, senza minimi e senza orari, che non può durare.
Anche la storia andrebbe rivista. C’è una condiscendenza supina alla superbia cinese. Dice che la Cina scriveva poesia quando noi ci rotolavano nel fango, mangiando anche noi animali vivi, ma ammazzandoli con le mani. La Cina, così piena di storiografia, non ebbe cognizione dell’impero romano. Né l’impero seppe della Cina imperiale e gloriosa Sì, comprava sete, che apprezzava, e nulla più. Si dice anche che il Cristo a Cafarnao seppe di Buddha e di Confucio – ma forse il sionismo pretende troppo, “toledothare” Cristo e farsene monumento.
Con una bibliografia, e con un utilissimo indice dei nomi.
Federico Rampini, Oriente Occidente, Einaudi, pp. 279 € 17

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