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giovedì 22 luglio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (461)

Giuseppe Leuzzi

Ragionando con un amico delle Grandi Madri del Mediterrameo, Paolo Rumiz si trova a evocare (“Madre nostra che sei nel mare Mediterraneo”, “Robinson” 17 luglio) “quella fila di Madonne nere, sibille, parche, menadi, prefiche,  erinni che affollano la sacralità del nostro Meridione”. Altro che “la donna del Sud”: il Sud sarebbe femmina, in regime patriarcale?
 
“Sul confine scomparso di quella che fu la Cassa del Mezzogiorno – nato grazie a quella”, scrive Federico Fubini sul “Corriere dela sera” martedì, “l’impianto da un miliardo di dosi”, di vaccini anti-covid. Ad Anagni. Non si fa un bilancio della Cassa del Mezzogiorno – basta il nome, il Mezzogiorno, il Sud. Ma Pomezia, Frosinone, l’Abruzzo tutto, i residui centri industriali in Campania, e altrove, molto la  Cassa ha creato bene.
 
Sudismi/sadismi
“Racconta l’estate”, il quotidiano “la Repubblica”, con Paolo Di Paolo, “sulle orme di Pasolini”. In quattro tappe, partendo da Salerno. Per i sessant’anni dal “celebre viaggio” di Pasolini – in 24 ore mille km., o erano duemila km. in 48 ore. Un viaggio che il quotidiano così sintetizza: “Sessant’anni fa lo scrittore cercava un mondo che non esisteva più. Nel Meridione, scriveva, la notte è ancora quella di molti secoli fa”. Mentre “oggi qui la gente dice: «Il coprifuoco non era bello, per carità, però si vedono scene mai viste, scene da pazzi»”. Cosa che, per la verità, a Di Paolo dice “un bagnante di mezza età” – uno che “ci affida un’intemerata sugli eccessi del «cattolicamente corretto»”. Ma poi si lamenta della mancanza di pudore.
Quando si arriva al Sud non c’è rimedio – “falla come vuoi, sempre è cucuzza”, dice il calabrese.

La mafia cattiva imprenditrice
Un colpo alla dottrina della mafia imprenditrice. Isaia Sales anticipa (“la Repubblica”, 17 luglio), uno studio di tre ricercatori della Bocconi, Antonio Marra, Donato Masciandaro e Nicola Pecchiari, sulle imprese mafiose, create o comprate dalle mafie, da cui risulta che “le aziende a partecipazione criminale e mafiosa, contrariamente a quello che abitualmente si pensa, corrono più rischi di fallire rispetto alle altre presenti sul mercato perché presentano in genere una redditività più bassa, un debito più alto e una minore liquidità”.
Il linguaggio è cauteloso, ma il dato è evidente. “Abitualmente” è parola anche imprecisa, andrebbe detto “contrariamente a quanto siamo indotti a pensare” – chi conosce anche un solo mafioso sa che non è affidabile, non saprebbe esserlo, nemmeno sciacquandosi la bocca a Cambridge.
Lo studio si basa su 1.840 imprese lombarde “collegate con diverse modalità al crimine organizzato, utilizzando i dati dell’Agenza Informazione e Sicurezza Interna (Aisi)”. La conclusione sarebbe che “le mafie incidono in maniera notevole sull’economia della parte più avanzata del Paese (dove si produce il 25 per cento del Pil nazionale), ma ciò non determina un miglioramento della produttività delle imprese  coinvolte”. Conclusione anch’essa cautelosa, ma insomma: la mafia non è manageriale, può spendere ma non sa gestire. 
Un colpo al tutto mafia, all’epica mafiosa. Che i mafiosi non sono buoni investitori  si sapeva: il clan calabrese degli Alvaro ci ha rimesso qualche milione, a via Veneto, tra il Café de Paris e il grande bistrot California. Lo stesso il (presunto) clan Mattiani di Palmi, sempre a Roma: dove aveva rilevato l’Antica Pasticceria Bella Napoli alle Sette Chiese, e col Vaticano, che aveva procurato le necessare licenze edilizie, e un mutuo veloce di favore, aveva riconvertito in pochi mesi, in tempo per il Giubileo 2000, un vecchio convento monacale ormai disabitato, il Luz Casanova, nel Grand Hotel Gianicolo, con roof garden vista san Pietro. Espropriati entrambi, gli Alvaro e Giuseppe Mattiani.
P.S.- Questi due casi però necessitano un poscritto. Sia gli Alvaro che Mattiani hanno poi avuto indietro i beni dalla Cassazione – Mattiani da subito, già in Appello: il suo delitto era stato di candidarsi a sindaco, per questo fu prontamente fatto inguaiare da uno dei Gallico, mafiosi invece professi e condannati. La mafia è poco imprendoriale, ma che dire della giustizia?
 
Legge speciale per il Sud
Il diritto penale le esclude, il diritto democratico, costituzionale: le leggi “speciali” non ci possono essere, discriminatorie. Ma per il Sud sì. Non contro il Sud, contro le mafie. Che, come è noto, sono al Sud.
Un inedito, solitario, riesame del decreto legge 164, 1991, che compie trent’anni, di Paolo Riva per “Buone notizie”, il settimanale del Terzo Settore del “Corriere della sera”, lo spiega con pochi dati (il dl 164 è stato abrogato nel 2000, ma lo scioglimento amministrativo delle amministrazioni locali è rimasto nel Testo unico sull’ordinamento degli enti locali, Tuel, n. 267 del 2000,artt. 143-146): il Prefetto può mandare a casa un consiglio comunale, col sindaco, a suo giudizio. Come usava fino a qualche decennio fa con il “confino di polizia”.  Confidando i Comuni, di qualsiasi dimensione, di mille o di centomila abitanti (a Roma si è arrivati, almeno un paio di volte, dopo la giunta Carraro e il sidnaco Marino, ai

X due o tre milioni, quanti ne conta la capitale), a tre funzionari di prefettura, per un anno e mezzo, con auto e autista, pagati in sovrappiù, per “non fare”.
Un “confino” di cui la Corte Costituzionale nel 1993 ha confermato la validità. In questi termini: lo scioglimento dei consigli comunali va considerato l’extrema ratio dell’ordinamento per salvaguardare la funzionalità della pubblica amministrazione. Funzionamento che invece viene del tutto bloccato perdurando il commissariamento. Che poi lascia tracce sempre negative, in termini di efficienza amministrativa, e perfino di presenza fisica. A Roma queste tracce sono ancora visibili dopo l’ultimo commissariamento: l’assentesimo è aumentato e gli uffici sono ingovernabili. Il precedente commissariamento, nel 1993, s’era affrettato a cancellare l’appalto della rilevazione del patrimonio immobiliare del Comune: il Campidoglio possiede cieca 40 mila unità immobiliare, si ritiene, non si sa, molte di pregio, si ritiene, non si sa, da cui percepisce quanto non basta a pagare gli uffici del patrimonio.   
La legge del 1991 è stata applicata 356 volte. Per “quasi il 90 per cento al Sud, Calabria, Campania e Sicilia”. La quota meridionale è ingrossata perché alcuni comuni sono stati sciolti più volte. Riva cita Marano, nel napoletano, ma Platì si può aggiungere, in Calabria, e San Luca – paesi dove le elezioni comunali vanno deserte, tutti hanno qualche parente più o meno oberato da carichi pendenti.
Per lo scioglimento la legge prevede che ci siano “concreti, univoci e rilevanti elementi sui collegamenti degli amministratori con la criminalità organizzata”. Ma a volte basta una semplice cuginanza con un portatore di carichi pendenti – anche non intervenuta dopo il voto, antecedente alla compilazione delle liste elettorali ma allora non rilevata. Sui “collegamenti” vigilano i Carabinieri, con i carichi pendenti, in un quadro giudiziario cioè, e anche con la “note di servizio”, informali, di caserma.
Decidono i prefetti: la legge riporta all’Italia dei prefetti spadoliniana, cioè giolittiana.
  
Mafie
Lorenzo Tondo racconta dei tanti delitti di mafia impuniti – lo fa sul “Guardian”, che è un giornale ingleose, in Italia l’argomento non appassiona. A Carini, in provincia di Palermo, Vincenzo Agostino ha visto a giugno, dopo trentadue anni, una condanna per l’assassinio del figlio poliziotto, Antonino, e di sua moglie Ida, incinta di cinque mesi, mentre passeggiavano sul lungomare.  Antonino collaborava con i servizi di intelligence, alla caccia dei altitanti.
A Soriano Calabro Filippo Ceravolo, 19 anni, ucciso nove anni fa per sbaglio, per avere accettato un passaggio in macchina da un amico che invece era nel mirino della ‘ndrangheta locale, attende ancora giustizia. Nonostante i killer, quattro, siano stati individuati. I genitori di Filippo e la sorella vivono tra depressioni e tentati suicidi.
A Foggia Francesco Marcone è stato assassinato nel 1995 nella tromba delle scale del suo condominio: era il direttore dell’ufficio del registro e aveva denunciato “la corruzione del suo stesso ufficio e l’evasione fiscale di diverse aziende”. Ucciso non si sa ancora da chi.
Tondo racconta vari casi di giustizia negata di “quattro regioni dell’Italia meridionale con una tradizione di crimine organizzato”, avverte il giornale. E viene da chiedersi: da chi? Ma non sfugge nemmeno lui, Tondo, di Sciacca,  alla sociologia da caserma: la giustizia non funziona per l’omertà. Cioè: i morti non parlano, nemmeno i loro parenti. Perché, si sa, della mafia tutti sanno tutto.
Ma questo, in parte, è vero: i Carabinieri hanno sempre molte confidenze – a parte le lettere anonime.
 
Il clan come esca
Domenico Forgione, mite scrittore di storia locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, si è fatto sette mesi di carcere un anno e mezzo fa perché “intercettato” in storie di mafia. Scarcerato a inizio anno trova ora la forza di spiegare il suo caso: incredibile. Ha subito detto all’interrogatorio di convalida dell’arresto che lui non era lui, che lui non aveva mai parlato con i criminali. Ma né il gip né il riesame gli hanno creduto – semplice, non lo hanno ascoltato.
La Direzione antimafia di Reggio Calabria agitava contro Forgione un “coacervo” di indizi. Senza però mai produrli. Finché, minacciata, non ha accettato una perizia fonica, che il Ris di Messina ha certificato: Forgione non era Forgione.
Lo stesso hanno accertato, dopo lunga contesa procedurale, le perizie  foniche per il vice-sindaco di Sant’Eufemia, Idà, e per il presidente del consiglio comunale, Alati, arrestati insieme con Forgione.
Eyphemia, l’inchiesta di Sant’Eufemia, ha portato a 65 arresti, in mezza Italia: Milano, Bergamo, Lodi, Pavia, Novara, Perugia, Ancona, Pesaro-Urbino, oltre che localmente. Tutti ruotanti attono al famoso clan Alvaro di Sinopoli. Che però è su piazza da almeno sessant’anni ormai, sessantatré per l’esattezza, e sempre a piede libero.
Il clan serve come esca? Gli arresti per collusione con gli Alvaro saranno ormai migliaia – era già a Roma una trentina d’anni fa, avendo rilevato il Café de Paris a via Veneto, e il California, un bistrot su tre piani, nell’adiacente via Bissolati. Saranno questi Alvaro, nell’intimo, collaboratori di giustizia? Farebbero un buon giallo: vendicarsi dei propri nemici, o anche solo di quelli dei Procuratori della Repubblica, semplicemente accostandoli.
Il Café de Paris, benché confiscato, è tornato di recente nella disponibilità degli Alvaro. Un avviamento ora azzerato, però che soddisfazione.
 
Puglia
Al Bano canta in chiesa a Andria al matrimonio di conoscenti e il vescovo s’infuria. Ma forse non è mai andato a vedere come si fa un matrimonio oggi, in chiesa. Un business: Bari vanta 31 location per matrimoni, ville, castelli, palazzi, monasteri, saloni.
 
Anche Carla Bruni canta al matrimonio, questo non in chiesa, all’hotel Crillon, del calciatore Verratti a Parigi. Ma gli ospiti hanno travolto la première Dame intonando insieme, in coro, “Felicità”, di Al Bano. Se Parigi avesse lu mere, sarebbe una piccola Bere.
 
Rumiz la mette al Nord. Qualche anno fa, 1999, scrivendo delle sue peregrinazioni estive, “Capolinea Bisanzio” (ora in “È Oriente”), Rumiz faceva il vecchio gioco dei quiz al concorso militare per ufficiale di complemento – è più a Est Trieste o Napoli, etc.? Il Sud volendo un Oriente: “Prova a guardare dal Gargano la retta infinita che divide il verde dell’Adriatico dal giallo andaluso del Tavoliere”.

Ma di fatto Rumiz ricalcava la meridionalità del Sud, con qualche annessione al Nord: “Lo Stivale s’inclina, la Puglia non è affatto Sud ma guarda a settentrione. L’Adriatico è il mare del Nord. I latini lo chiamavano superum, mentre il Tirreno era inferum, meridionale”.
Con le migliori intenzioni, ma senza fiato. Insistente: “Se dal Gargano tiri una linea verso ovest, incontri la Catalogna, profondo Nord della dirimpettaia Spagna”. 
 
“A Manduria, dove vivevo con la mia famiglia, non c’erano librerie. Zero”, lamenta con Antonello Guerrera, sul “Venerdì di Repubblica”, lo scrittore Franeesco Dimitri, che torna in libreria con un fantasy scritto in inglese – si scrive come si fanno i film? Era ventisei anni fa, Dimitri aveva tredici anni, e non riusciva a leggere “Il Signore degli anelli”. Si penserebbe perché, un po’, illeggibile. No: “Era il Sud feroce”, conclude. Sarà per questo che se ne è andato a Londra.
 
Di Manduria quando Dimitri era bambino si hano ottimi ricordi – fu nel 1946 o 1947 la città più ricca d’Italia, quella che oggi è Varese o Bologna secondo “Il Sole 24 Ore”, avendo olio e vino. Del resto, lo stesso Dimitri poi lo dice: “Quando ero ancora in quinta elementare”, quindi a dieci anni, “mio fratello Arcangelo aveva comprato per sé ‘Lo Hobbit’, edizione Adelphi. Lo lessi anch’io, tutto d’un fiato”.
 
Conversando con la commessa di pasticceria a Patrasso, nell’attesa della traghetto, una ragazza che parla l’italiano, ha viaggiato in Europa, sbarcando a Bari, chiediamo l’impressione che fa a una giovane greca l’arrivo in Italia. “Tutto è grande è la risposta”, dopo una pausa. E specifica: gli uliveti, gli agrumeti, i campi, allora, di grano. Sottinteso: in raffronto alla Grecia, dove tutto è minuscolo. Grande è l’epiteto della Magna Grecia.
 
Mantiene la primazia in tutto il Sud, in fatto di politica e di istituzioni. Rispetto a Napoli per esempio, o alla Sicilia, aree più popolose e a vocazione più scopertamente – dialetticamente – politica: Salandra,  Di Vittorio, Moro, Conte (Boccia, Bellanova), eccetera, i fratelli Salvi, Cesare e Giovanni, che hanno gestito per qualche decennio mezza giustizia. O economica di Stato: Menichella (Banca d’Italia), Di Cagno (Enel), Sette (Eni).
 
O forse non ha più “gente famosa” delle altre regioni. Ma non fa pesare una pugliesità – come la napoletanità, la sicilitudine. Lo stesso i suoi tanti artisti, specie i musicisti, Muti, Modugno, Arbore, eccetera. Il Sud si obera di una finta tradizione, fine a se stessa, che finisce per fare zavorra, la Puglia va invece veloce.

leuzzi@antiit.eu

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