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lunedì 30 agosto 2021

Il lavoro è mentale - sentimentale

Un saggio del 1899. Una decisa, vigorosa, contestazione dell’assunto socialista del lavoro come valore – come valore unico, dell’uguaglianza tra lavoro e valore.
L’uomo sarà “l’animale che scambia” nel successivo “La filosofia del denaro” - un vero e proprio trattato, nel quale questo saggio confluirà. Il denaro sarà quello di Marx, “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”: “La forma in cui tutte le merci si uguagliano, si paragonano, si misurano; la forma in cui tutte le merci si risolvono, l’elemento che si risolve in tutte le merci; l’equivalente generale”. Un metro universale, e un propellente. Una “non forma” per Simmel ma ugualmente ubiquo. Una sorta di liquido amniotico, “senza carattere”, “non oggettuale”. E “un motore immobile”, ”incapace di stare fermo”, e insieme, come la magia di Bruno, nota il commentatore Valagussa, “vincolo  di tutti i vincoli, “la forza galvano-chimica della società”. Ma il lavoro no: a seconda dei soggetti e del tipo di lavoro, la possibilità di concentrare il lavoro in una unità di tempo può variare di molto – fino all’incomparabilità, tra il manovale e il pianista, etc. 
Il saggio è un’analisi critica dell’assunto socialista dell’uguaglianza tra lavoro e valore. “L’articolo del 1899”, spiega con veemenza il curatore, cioè questo saggio, “decostruisce in maniera radicale e sistematica tale pretesa”. Una decostruzione che Valagussa ricostruisce in tre passaggi: manca un ‘sano’ materialismo storico; il lavoro non è unitario, il lavoro intellettuale è altro da quello fisico-materiale; il valore del lavoro, nelle parole di Simmel, “non si misura sulla base della sua quantità, bensì dell’utilità del suo risultato”. Né funziona la moneta-lavoro – due entità-realtà inconciliabili.  C’è “una disarmonia inconciliabile tra gli ideali di uguaglianza e di giustizia e la massimizzazione delle prestazioni”.
Il valore del lavoro non è misurabile in termini di quantità, né di tempo impiegato, né di qualità del prodotto – come valutare con questi tre criteri il lavoro del pianista e del giocoliere, o del funambolo?
Usa dividere il lavoro manuale da quello intellettuale: non c’è comune sensibilità tra il lavoro fisico e quello intellettuale. Né c’è un “criterio di proporzionalità” (misurabilità) tra il lavoro fisico e quello intellettuale. Ma il lavoro fisico presuppone  un’applicazione intellettuale – “energia psichica”. Anzi, “il lavoro fisico contiene carattere di valore e di preziosità solamente mediante il dispendio di energia psichica”. In termini di “superamento costante degli impulsi all’accidia, al godimento, alla bella vita” (113) – al non fare. E talvolta all’inverso – lavorare è meglio di non lavorare? – anche se “il peso del non-lavoro viene percepito soltanto in alcune occasioni rarissime ed eccezionali, quelle stesse in cui non si avverte il peso del lavoro” (114).
“Ciò che viene effettivamente ripagato riguardo al lavoro, il titolo di diritto a partire dal quale si pretende in cambio qualcosa, è l’impiego dell’energia psichica necessaria per farsi carico e per superare le sensazioni interiori di ostacolo e di difficoltà” (115). Per la centralità, ribadita, del “processo psichico”: “La cognizione fondamentale all’altro capo della ricerca economica” è “il fatto che l’intero valore e l’intero significato degli oggetti e del loro possesso risiede nei sentimenti che essi destano” (116). Il lavoro, sia intellettuale che manuale, origina “nel sentimento e nella volontà”: “L’istanza della retribuzione” è “funzione soggettiva, guidata dalla volontà che la supporta, la fatica del lavoro, l’impiego di energia di cui abbisogna per la produzione ” (121).
Un’altra idea ricevuta è insidiosa. “Nella teoria del valore-lavoro una difficoltà emerge insormontabile, precisamente quella che sorge dall’obiezione assai triviale secondo cui esisterebe anche lavoro privo di valore e superfluo”. Quindi, tra i due estremi, una scala di valori intermedi: “Questo vuole dire che il valore del lavoro non si misura sula base della sua quantità, bensì dell’utilità del suo risultato”. Utilità che la teoria del valore-lavoro dà per costante – “l’utilità veniva presupposta in tale lavoro in quantità sempre uguale” – il netturbino non è meno “utile” del violinista. Un presupposto “troppo semplice”.
Non una riflessione anti-sociale, al contrario. La conclusione è che: “Nessuna cultura evoluta può sorgere senza la differenza tra lavoro più elevato e quello meno qualificato. La società più avanzata – purtroppo del tutto utopica – poterebbe giungere però, attraverso un cambiamento oggettivo e un cambiamento di valore sul piano psicologico, al punto in cui questa differenza nelle sue conseguenze pratiche per i soggetti corrisponda esattamente a quella tra maggiore e minore lavoro”.
Un lungo saggio di Francesco Valagussa, che ha curato l’edizione, mete in quadro questa critica con “La filosofia del denaro”, dentro la quale è stata poi integrata, “parte cospicua dela terza sezione del quinto capitolo”.
Georg Simmel, Filosofia del lavoro, Mimesis, pp. 129 € 9



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