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domenica 8 maggio 2022

Il mondo com'è (444)

astolfo 

Dayan in Vietnam – “Gli americani stanno vincendo tutto, tranne la guerra”: Moshe Dayan, il generale artefice delle due vittorie israeliane, nel 1956 a Suez e nel 1967 contro l’Egitto di Nasser, era stato un anno prima, a fine luglio e ad agosto del 1966, in Vietnam, “inviato speciale” del quotidiano “Maariv”. Fu “embedded”, poté cioè partecipare ad azioni di guerra americane, e non ne rimase convinto. L’esercito Usa è “una macchina eccezionale senza intelligence”, scrisse. Questa soprattutto individuò come la maggiore debolezza americana: non sapere nulla del nemico, né all’ingrosso né al minuto – si trovò a partecipare ad azioni contro i Vietcong con piani dettagliati, principali e subordinati, dello schieramento americano ma senza un’idea di dove il nemico si trovasse, in che luoghi, con quale schieramento, se in massa, a gruppi isolati, su un fronte, io disseminati. Connessa alla mancanza di informazioni trovava la campagna di sensibilizzazione: le attività civili, per conquistarsi la fiducia dei vietnamiti. Molta attività disse fasulla, vantata solo per tranquillizzare l’opinione negli Stati Uniti. E comunque diceva impossibile catturare, facendo la guerra, la fiducia dei vietnamiti: la grande maggioranza voleva solo la pace. Più di tutto pesava, a svantaggio americano, paradossalmente, la sproporzione enorme degli armamenti: “Qualsiasi confronto tra le due forze armate era stupefacente. Da un lato c’era l’esercito statunitense dotato di elicotteri, una forza aerea incredibile, armamenti, mezzi di comunicazione elettronici, artiglieria e altre grandi risorse. Senza contare munizioni, benzina, componenti di ricambio e attrezzatura di ogni sorta. Dall’altra parte invece c’erano le truppe nordvietnamite che avevano camminato per quattro mesi portandosi sulle spalle l’artiglieria, dotate si un semplice cucchiaino di latta per mangiare qualche manciata di riso da un piatto pure di latta”.
Dayan aveva cominciata la vita militare come specialista di guerriglie. Nativo di Israele (da genitori immigrati dall’Ucraina), cresciuto in un kibbutz, a 14 anni si era arruolato nell’Haganah, il gruppo paramilitare a difesa degli insediamenti ebraici in Palestina. Nel 1937, a 22 anni, aveva il grado di sergente, e collaborava col capitano inglese Orde Charles Wingate, dal quale apprese le tattiche anti-guerriglia: Wingate, un inglese filosionista, era incaricato di fronteggiare la rivolta araba in Palestina con strumenti non regolamentari, e creò delle squadre miste, di militari britannici e membri dell’Haganah, le Special Night Squads. Nel 1939 l’Haganah fu dichiarata illegale dalla amministrazione britannica e Dayan fu incarcerato, per due anni. Nel 1941 l’Haganah fu riconosciuta, e impiegata nella guerra contro la Francia di Vichy in Siria. Dayan fu in Siria aggregato a una divisione di fanteria australiana, e ci perdette l’occhio sinistro. Nella guerra per la creazione di Israele, nel 1948, comandò la piazza di Gerusalemme. Era capo di Stato Maggiore nel 1956, nella guerra di Suez, con i franco-britannici contro l’Egitto. L’anno dopo il viaggio in Vietnam, fu il ministro della Difesa nella Guerra dei Sei giorni, che annientò l’Egitto di Nasser. Sei anni più tardi, accusato di non avere saputo prevenire il contrattacco egiziano, di Sadat, si dimise.
Fece successivamente molta attività politica, dentro e fuori del partito Socialista. Ministro più volte, era agli Esteri nel 1978, col primo ministro Menachem Begin, col quale firmò gli accordi di pace con l’Egitto a Camp David. Ma presto si dimise, in polemica con l’occupazione dei territori palestinesi. Alle elezioni del giugno 1981 si presentò con un suo partito, Telem, per il ritiro dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. Vinse due seggi, ma poco dopo morì, di tumore.
 
Donbass
-  Vi nacque “Stakhanov”: il prototipo del lavoratore instancabile produttivista della propaganda sovietica era un minatore del Donbass. Regione minero-metallurgica che a metà Novecento era rappresentata nella propaganda murale sovietica come il centro industriale della federazione, che irrigava con le sue fontane produttive. Donetsk si chiamava Stalino. Il Donbass era meta ambita di tutti i lavoratori della federazione, in particolare dei russi, sia nelle attività minerarie che in quelle metallurgiche. Furono gli anni anche della massima russificazione dell’Ucraina.
L’industrializzazione della regione – da tempo decaduta di peso economico, ben prima della guerra civile in atto dal 2014 - era però recente, di appena mezzo secolo. Risale a fine Ottocento, a iniziativa di capitali “occidentali”, cioè non slavi, grazie a tre fattori: le miniere di carbone, le miniere di ferro, e la situazione geografica del bacino minerario, con accesso al mare di Azov attraverso Mariupol, e al vastissimo entroterra col Don, il fiume. Nel dopoguerra ha moltiplicato le sue attività: oltre all’estrazione mineraria e alla metallurgia, ha avuto fabbriche di armi, di macchine utensili, e di mezzi di trasporto. Un concentrato di attività e di (relativa) ricchezza che però si è dissolto col dissolvimento dell’Unione Sovietica, del suo enorme mercato protetto.
Resta però importane per l’Ucraina: prima del 2014, dell’avvio della guerra civile locale, rappresentava un quinto del pil nazionale ucraino. Ma il suo sbocco era sempre il mercato russo. Un tentativo di rilancio si era avuto con una serie importante di sovvenzioni e contratti pubblici disposta dal Viktor Yanukovitch, ex governatore di Donetsk, poi primo ministro e presidente dell’Ucraina – il presidente cacciato dai nazionalisti con manifestazioni di piazza, che hanno originato la crisi di Crimea, la guerra civile nel Donbass, e ora la guerra aperta.


Donetsk fu fondata un industriale gallese, John James Hughes. A partire dal 1869. Su richiesta russa Hughes costruì accanto alle miniere di ferro una fabbrica di scudi metallici, per le artiglierie e altre difese, che fu il primo nucleo della città. Il primo sviluppo della regione fu opera di capitali e imprese “occidentali”, inglesi, americane, austriache, tedesche, richiamate dal potere zarista, per ammodernare e ampliare l’armamento, la flotta, le ferrovie. La Illitch, una delle due grandi acciaierie di Mariupol (l’altra è la Azovstahl, sotto assedio in queste ore), fu fondata nel 1897 dalla Nikopol-Mariupol Mining and Metallurgical Society, una società russa (Banca Internazionale di San Pietroburgo), austriaca (Adolf Rothstein) e americana (Edmund Smith).


Ucraina
– Fu per diventare “Napoleonide”, o “Napoleonia”, al tempo della tentata invasione francese della Russia, nel 1812 - lo storico della École pratique des Hautes Étudese Marin Motte, specialista dell’Ucraina, ha spiegato recentemente.
La politica di “contenimento” della Russia non è l’invenzione di George Kennan nel primo dopoguerra, data da alcuni secoli. Già nel primo Settecento, ha spiegato Motte su “Le Figaro”, attingendo alle fonti francesi, la Russia era una “grande preoccupazione”, l’“espansionismo russo” verso Occidente: “Già nel 1710 la diplomazia francese progettava di sostenere i cosacchi ucraini contro Mosca”. Il progetto fu ripreso “sotto il Primo Impero”, con l’intenzione di creare “un protettorato francese in Ucraina che si sarebbe chiamato ‘Napoleonide’”. Un progetto poco conosciuto ma preciso, sviluppato dal conte Hauterive, direttore politico del ministero degli Esteri. Il progetto sottolineava la ricchezza agricola dell’Ucraina, e l’importanza geostrategica del territorio, da rinominare Napoleonide: “Questo Stato costituirebbe una delle più forti barriere alle pretese della Russia sul Mar Nero e sul Bosforo. Respinta per sempre dal Mar Nero, la Russia sarebbe allora costretta a rinunciare ai suoi progetti di conquista”.
 
“Senza l’Ucraina, la Russia non è più una grande potenza”, sosteneva Zbigniew Brzeziński, il politologo americano di origine polacca che fu il “Kissinger” della presidenza Carter, 1977-1981, il consigliere per la sicurezza nazionale. E intendeva in senso geo-strategico. La parte russa del mar Nero è poco praticabile, senza l’Ucraina, o con un’Ucraina ostile, la Russia ha accesso praticamente negato al mar Nero, e al Mediterraneo.
Si attribuisce a Churchill la battuta: “La Russia è un gigante di cui abbiamo bloccato le due narici”. e intendeva gli sbocchi al mar Baltico e al mar Nero. La riannessione nel 2014 della Crimea, assegnata nel 1954 all’Ucraina da Kruscev (nato in Russia in prossimità del confine con l’Ucraina ma cresciuto in Ucraina), sembrerebbe avere aperto almeno uno dei due colli di bottiglia, ma evidentemente no, la Crimea restando una exclave, senza continuità territoriale con la Russia.
La guerra di Crimea nel 1853 - avviata da Francia e Inghilterra, con la partecipazione del regno di Sardegna su iniziativa del giovane Cavour - ebbe lo stesso scopo, rendere impervio lo sbocco al Mediterraneo alla Russia, che si era allargata a tutta l’attuale Ucraine nei Sei-Settecento – una espansione culminata nel 1784 con l’annessione, da parte della zarina Caterina, del khanato di Crimea. La guerra di Crimea fu dichiarata dalla Russia, in disputa con la Francia per l’esclusiva della protezione dei Luoghi Santi cristiani nel territorio dell’impero ottomano.
A fine 1852 Luigi Napoleone, fresco dell’ascesa a imperatore dei francesi, Napoleone III, pretese e ottenne dalla Turchia il titolo di protettore dei luoghi santi cristiani. Lo zar Nicola I, che aveva chiesto analogo titolo sui luoghi della cristianità ortodossa, ordinò la mobilitazione della Russia meridionale e una parata della flotta a Sebastopoli. La Turchia finì per privilegiare la pretesa francese, e la Russia dichiarò la guerra. L’Inghilterra pronta si schierò con la Francia proprio per questo motivo: impedire alla Russia di diventare una potenza mediterranea. La coalizione franco-britannico-sabauda vinse, con la presa nel 1855 di Sebastopoli, e impose alla Russia la smilitarizzazione del mar Nero. Un vincolo che durò fino al 1870: al crollo di Napoleone III e della Francia, la Russia si dichiarò svincolata da ogni impegno.

astolfo@antiit.eu

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