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sabato 14 maggio 2022

Secondi pensieri - 482

zeulig


Aforisma
– “L’aforisma non coincide mai con la verità: o è una mezza verità o una verità e mezzo”, Karl Kraus, aforista per eccellenza. È una forma del “mi si nota di più se….”. Ma anche, certo, un’espressione non chiusa o paludata, e un’interrogazione aperta – una “illuminazione”, una sfida al pensiero.
Aforista principe però non è Kraus, aforista, di fatto lo è Nietzsche, filosofo. Da qui il suo grande richiamo, di lettori (l’aforisma è comunque arguto, attrae), e di critici o pensatori (l’aforisma è una sfida)? Se i Novecento ne è stato l’erede, di Nietzsche. che ne resterà del Novecento?  Perché, applicandosi, si può estrarre tutto da Nietzsche - altrimenti detto: Nietzsche è fertile. Un germoglio, una patata non ancora formata.  
 
Capitalismo – Nasce dalla (con la) religione ebraico-cristiana: il sentimento religioso ne è all’origine. Non dell’accumulo, ma sì dell’uguaglianza delle opportunità (la democrazia moderna nasce in chiesa), e del futuro - dell’avvenire, del progresso. Come pratica e come dottrina. In campo non strettamente economico (finanziario), ma sociale e culturale. A prescindere dalla vecchia analisi-polemica del giudaismo e del prestito a interesse.
La borghesia e il capitalismo nel quadro sociale, del funzionamento della collettività, come strutturazione e interesse-dovere produttivo e accrescitivo sono storicamente definiti in ambito cristiano, dal cristianesimo – s’innestano nell’uguaglianza, di origine e opportunità. Nella versione protestante (calvinista), del thrift, del risparmio, dell’accumulazione, della sociologia moderna. Di cui Max Weber si vuole il teorico per eccellenza, con “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” - “il più celebre trattato di sociologia che sia mai stato scritto”, Francia Fukuyama, “un libro che ha capovolto la tesi di Karl Marx” (Marx di cui Pasolini, “marxista” professo a ogni passo, diceva per questo “inattendibile”). Ma in realtà di tutto il cristianesimo, ben prima e anche dopo e all’infuori dello scisma protestante, per la dottrina e la pratica della mobilità sociale, per la teorica della “Auctoritas” sociale, per la Provvidenza, la concezione migliorativa della storia, per l’impegno sociale che è stato pratica chiesastica ben prima che ne fosse una dottrina, e la concezione “progressiva”, migliorativa, degli assetti – della natura e gli assetti del lavoro, e della giusta mercede, come della proprietà – lo stesso Weber, a leggerlo, fa soprattutto il caso del protestantesimo luterano più vicino alle posizioni cattoliche.
 
Fede e ragione - “La fede non si può mettere tra parentesi, il dialogo tra le religioni non è possibile”, scriveva nel 2008 l’ancora papa Benedetto XIV all’epistemologo Marcello Pera, per un libro che poi si firmò a quattro mani, “Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, Islam”. Praticabile invece e auspicabile un dialogo fra culture che sottendono una religione - in quest’ambito anche “una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari”. La fede è cultura ma è anche altro.
 
Opinione pubblica – È nata tra Sei e Settecento, si sa, dentro e attorno alle corti: l’opinione degli allora oligarchi in veste di nobili di antico lignaggio o di abili imprenditori, rinsaldata presto dei fogli a stampa, poi gazzette, che gli stessi oligarchi temevano in vita. È nata senza dirselo, per una convergenza spontanea di modi di dire e di forme di comunicazione. Si può dire svanita oggi, nella sua funzione formativa se non politica, con la democratizzazione dell’informazione. Con l’informazione, attiva oltre che passiva, portata in disponibilità a chiunque, al netto di qualsiasi fondamento – formazione, esperienza, titoli o attività pregresse. Non comprovabile, per un verso o per l’altro. Frantumata. Ininfluente in sé, essendo subito sovrammessa o cancellata da miriadi di altri messaggi social. Ma sì nell’insieme, come ondate sollevate da venti imponderabili. Non misurabile, non prevedibile. E senza effetti, se non l’incertezza.
L’opinione pubblica è (era) esercizio aristocratico: di chi sa, per privilegio o per formazione, per impegno costante e critico – dialettico - alla conoscenza.
 
Pubblicità – Il massimo della pubblicità (whatsapp, twitter, instagram, wikileaks, videoregistrazioni), comporta un obbligo di censura – di autocensura. E un impoverimento del linguaggio. È un limite all’espressione e alla discussione. Le reti sociali, dalle lezioni scolastiche elementari al dottorato, fra amici, conoscenti, appassionati, la conferenza, la relazione, perfino la conversazione individuale se registrata, o condivisa con un pubblico indeterminato, presente e conosciuto oppure assente e lontanamente correlabile, comporta la museruola. Non c’è commento possibile, cioè influente. Sono escluse le forme paradossali di esposizione, l’ironia, il sarcasmo, lo scherzo, la battura comica, l’idiotismo.
Occorre, avviene, si produce, la stessa afasia del politicamente corretto, già acclarata. La civiltà dei diritti s’imbuca in un paradosso: comporta un disseccamento del linguaggio, ridotto alla pura comunicazione, semplice, lineare, basilare. Senza umori, senza spessore, limitata alla comunicazione d’ordine, meniale.
L’effetto della “pubblicità” comunicativa è doppio: non solo impoverisce l’espressione (obbliga a impoverire l’espressione), ma comporta una censura. Doppia: personale, e della materia, dell’oggetto della comunicazione. Si prenda una lezione universitaria che, in regime di lockdown e di insegnamento da remoto, oppure per semplice comodità degli studenti, venga registrata e interpellabile su podcast: obbliga a un linguaggio per quanto possibile ristretto alla pura spiegazione del concetto - materiale, procedimento - in esame, e alla forma comunicativa più elementare possibile, non essendoci compresenza o altra correlazione con gli interlocutori. Ogni figura retorica bandita, seppure possa agevolare la comprensione e la memoria dell’insegnamento. Perché ogni singola parola può venire decontestualizzata e portarsi a prova di un delitto, sia pure solo verbale o di opinione.
È lo scenario orwelliano realizzato, di “184”, tanto noioso e tanto profetico – dove lo stesso basico Socing si può pensare come social: la pubblicità come museruola. Con una novità, non da marginale: non c’è autorità dittatoriale tradizionale (polizia, intercettazioni, spie) che debba implementare la censura, la censura è nel “sistema” stesso della pubblicità. Anche il linguaggio è la “neolingua” (newspeak) orwelliana. Un linguaggio in cui sono ammesse solo parole con significato univoco e limitato, senza sfumature. E, anche se non lo sappiamo, pensiamo il “bispensiero” (doublethink) di “1984”: “L’unica forma di pensiero ammissibile è il bispensiero…” - nella ossessione complottistica, di sospetti, accuse, ingiurie. E “la menzogna diventa verità e passa alla storia”. Niente riflessione, niente confronti, niente critica. Ma, soprattutto, tutto era già Socing: i documenti di ogni tipo, anche audiovisivi, e libri, giornali, film vengono rifatti in continuazione per emendarli da quanto non sia al momento in linea con Socing – in parallelo con lo sviluppo della cosiddetta intelligenza artificiale: giornali, libri, poesie, romanzi vengono scritti in automatico da macchine “parlascrivi”. E dappertutto sono presenti “buchi della memoria”, tritarifiuti instancabili dei prodotti della mente.
Ma, di più, si pratica questa “pubblicità” quasi obbligata con contentezza. Come esibizionisti cui piace denudarsi, per quanto poco presentabili. E anche nell’illusione di un avanzamento nella realizzazione del regno felice della pubblicità – della verità senza ombre né segreti. Spontaneamente e anzi con entusiasmo, senza un partito che ne faccia obbligo o una polizia. Nel nome della verità e anche della giustizia – l’età dei diritti suppone di se stessa l’età della giustizia.  

zeulig@antiit.eu

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