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La santità del nulla
Le
tentazioni di sant’Antonio eremita. Nel deserto, l’Antonio della Tebaide. Con
le note lusinghe diaboliche: il sesso, l’ambizione, l’intolleranza, la
violenza. Da parte di un Diavolo professore di spinozismo (panteismo).
È
una sorta di autoritratto. Flaubert è vorace, bulimico, insaziabile, e dunque,
poiché non può avere tutto, vive del desiderio di vivere (Sartre): Antonio nel
deserto è ascetismo e desiderio insieme. O non è ritenzione, il piacere
orientale prolungato nell’astensione, nell’eccitazione diluita? In questo
senso, è molto più flaubertiano.
È
la prima opera conclusa di Flaubert, 1849, a 28 anni. Che lui pensava conclusa
e lesse febbrilmente, per quattro giorni di fila, agli amici Bouilhet e Maxime
di Camp – col quale si apprestava al lungo viaggio in Oriente. Spernacchiato dagli
amici, rinunciò alla pubblicazione ma non all’ideea. Dopo tre rielaborazioni,
pubblicherà infine anche queste “Tentazioni”, nel 1874, su spinta di Turguenev
– dicendo: “È l’opera di tutta la mia vita”. Merita dunque rispetto, è
ventisette anni di lavoro. Antonio è Flaubert, anche lui: è l’artista che
sceglie di vivere solo, il deserto.
Un’opera
composita, sotto forma teatrale. Ma non è dramma. Fa largo spazio al contesto
storico, dottrinale. Ma non è storia. È narrativamente una sorta di
sceneggiatura, con lunghe didascalie e tratti dialogati. Nata sulla “Tentazione
di sant’Antonio” di Bruegel il Giovane a Genova, a palazzo Balbi ora Spinola, che Flaubert a 24 anni visitò
(era a Genova con la famiglia per il viaggio di nozze della sorella Caroline,
sorvegliato speciale del padre Cléophas, benche avesse 24 anni – morendo qualche
mese dopo, Cléophas lo lascerà infine libero, ma ormai nella configurazione psicologica
indelebile di paguro). Nata come idea teatrale, cosi Flaubert ne scrisse subito
all’amico intimo Le Poittevin – alla cui memoria sarà poi dedicata.
È
figurativamente il corrispondente dei ghirigori del futuro Art Nouveau. Di un
Oriente pittoresco, tra India e deserto. Non molto inventivo, molto è il
“Faust” di Goethe. Forse robusto sul piano filosofico, a proposito di piacere o
voluttà, di verità, di una certa idea del divino, fra le tante qui praticate o
combattute, e del tutto è niente. Sotto lo spettro di Spinoza, come gli studi
francesi si accaniscono ad argomentare, ma anche di sant’Agostino, in tema di
passione e di colpa.
La
traduzione, curata da Bruno Nacci, lega la trattazione al genere della vite dei
santi, e aiuta a districarsi, anche grazie a un glossrio, fra le innumeri sette
che, più del diavolo meridiano, tentavano il santo anacoreta – Antonio visse
tar III e IV secolo: gli Ariani naturalmente, e gli Asciti, Apollinaristi,
Valentiniani, Cainitu, Novaziani, Colliridiani, Marcioniti, Rencratiti,
Cerinziani, Merinziani.
Più
forse serve ricordare quanto Pavel Florenskij, iperflaubertiano, dice nel lungo
saggio “Antonio del romanzo e Antonio della tradizione”: “È con la freddezza
del chirurgo che egli incide l’anima, le esalazioni più fragranti degli ideali,
le miglori tra le fantasie umane, e tutto trasforma in un mucchio di rifiuti,
nella polvere grigia e letale del nulla”. La santità del nichilismo, dunque. Ma
“con tanta soavità e armonia che il lettore è disposto a seguirlo”.
Ad
Antonio il palestinese Ilarione, che volle incontrarlo personalmente nei suoi
propri vagabondaggi, fa dire: “La verità non esiste e non è necessaria”.
Gustave
Flaubert, Le tentazioni di sant’Antonio, Carbonio,
pp. 176 € 16,50
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