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domenica 29 ottobre 2023

La santità del nulla

Le tentazioni di sant’Antonio eremita. Nel deserto, l’Antonio della Tebaide. Con le note lusinghe diaboliche: il sesso, l’ambizione, l’intolleranza, la violenza. Da parte di un Diavolo professore di spinozismo (panteismo).
È una sorta di autoritratto. Flaubert è vorace, bulimico, insaziabile, e dunque, poiché non può avere tutto, vive del desiderio di vivere (Sartre): Antonio nel deserto è ascetismo e desiderio insieme. O non è ritenzione, il piacere orientale prolungato nell’astensione, nell’eccitazione diluita? In questo senso, è molto più flaubertiano.
È la prima opera conclusa di Flaubert, 1849, a 28 anni. Che lui pensava conclusa e lesse febbrilmente, per quattro giorni di fila, agli amici Bouilhet e Maxime di Camp – col quale si apprestava al lungo viaggio in Oriente. Spernacchiato dagli amici, rinunciò alla pubblicazione ma non all’idea. Dopo tre rielaborazioni, pubblicherà infine anche queste “Tentazioni”, nel 1874, su spinta di Turguenev – dicendo: “È l’opera di tutta la mia vita”. Merita dunque rispetto, è ventisette anni di lavoro.
Un’opera composita, non di genere definito. Sotto forma teatrale, ma non è dramma. Fa largo spazio al contesto storico, erudito. Ma non è storia. È antifrastiscamente un gioco al massacro delle figure della religione, ma non è un libello. Piuttosto un lungo, ripetuto interrogarsi sulla fede e l’allucinazione, credere come volontà di credere. È il primo testo poi pubblicato in cui Flaubert esercita la scrittura fatta con le letture, con i libri dell’erudizione – pratica poi satirizzata in “Bouvard e Pecuchet”:
È narrativamente una sorta di sceneggiatura, con lunghe didascalie e tratti dialogati. Nata sulla “Tentazione di sant’Antonio” di Brueghel a Genova, palazzo Balbi, che Flaubert a 24 anni visitò (era a Genova con la famiglia per il viaggio di nozze della sorella Caroline, sorvegliato speciale del padre Cléophas, benchérà infine libero, ma ormai nella configurazione psicologica indelebile di paguro). Nata come idea teatrale, cosi Flaubert ne scrisse subito all’amico intimo Le Poittevin – alla cui memoria sarà poi dedicata.
È figurativamente il corrispondente dei ghirigori del futuro Art Nouveau. Di un Oriente pittoresco, tra India e deserto. Non molto inventivo, molto è il “Faust” di Goethe. Forse robusto sul piano filosofico, a proposito di piacere o voluttà, di verità, di una certa idea del divino, fra le tante qui praticate o combattute, e del tutto è niente. Sotto lo spettro di Spinoza, come gli studi francesi si accaniscono ad argomentare, ma anche di sant’Agostino, in tema di passione e di colpa.
Antonio è Flaubert, anche lui: è l’artista che sceglie di vivere solo, il deserto. Flaubert era un eremita in casa. Quando la poetessa Louise Colet, con la quale pure si confidò per anni, si presentò a casa sua a Croisset, una sorta di tebaide, la tenne al cancello, benché piovesse a dirotto. Le “Tentazioni” sono il suo amore per l’arte, la sua passione esclusiva.
La vulgata biografica vuole che Flaubert ogni anno andasse a Rouen quando si esibiva un marionettista cantastorie, soprannominato Sant’Antonio perché sceneggiava la vita dell’eremita. Nello studio a Croisset tenne sempre al muro un’incisione di Callot sulle tentazioni di sant’Antonio, che si era comprato presto, nel 1846 – dopo quella di Brueghel il Vecchio che si era comprata a Genova l’anno prima. E si dice che quando la Prussia invase la Francia nel 1870, abbia seppellito il manoscritto delle “Tentazioni” in giardino per salvarlo dagli invasori. Furono queste “Tentazioni” che lo risollevarono dalla sconfitta ingiuriosa: “Quest’opera stravagante mi impedisce di pensare agli orrori della Comune”, la rivolta popolare a Parigi che seguì l’invasione e la sconfitta: “Quando troviamo il mondo troppo malvagio bisogna rifugiarsi in un altro mondo”, confidava a un corrispondente. Senza mancare di humour: “Ecco più di trent’anni che sono nel deserto a lamentarmi sempre!”.
Edmond de Goncourt ne annota le stranezze nei “Diari”, non del libro ma delle confidenze di cui Flaubert lo faceva materia. Quando glielo sintetizzò come una sorta di fissato, un martire che si lasciava incantare dal niente, da “piccole masse nebulose, grandi come capocchie di spillo e cigliate sui bordi”, dopodiché si rifaceva il segno della croce e tornava a pregare, “lo strano”, nota Goncourt, “è che sembra stupirsi del mio stupore”.
Più forse serve ricordare quanto Pavel Florenskij, iperflaubertiano, dice nel lungo saggio “Antonio del romanzo e Antonio della tradizione”: “È con la freddezza del chirurgo che egli incide l’anima, le esalazioni più fragranti degli ideali, le migliori tra le fantasie umane, e tutto trasforma in un mucchio di rifiuti, nella polvere grigia e letale del nulla”. La santità del nichilismo, dunque. Ma “con tanta soavità e armonia che il lettore è disposto a seguirlo”. Di Antonio si sa che il palestinese Ilarione, che volle incontrarlo personalmente nei suoi propri vagabondaggi, fa dire: “La verità non esiste e non è necessaria”. 
La traduzione, curata da Bruno Nacci, lega la trattazione al genere della vite dei santi, e aiuta a districarsi, anche grazie a un glossario, fra le innumeri sette che, più del diavolo meridiano, tentavano il santo anacoreta – Antonio visse tar III e IV secolo: gli Ariani naturalmente, e gli Asciti, Apollinaristi, Valentiniani, Cainitu, Novaziani, Colliridiani, Marcioniti, Rencratiti, Cerinziani, Merinziani. Sant’Antonio ora non dice niente ai più, ma è stato forte nella devozione (sant’Antonio da Padova) e nella tradizione (sant’Antonio Abate o l’Eremita). Michela Murgia nel “Viaggio in Sardegna” trova a Ottana, al centro dell’isola, per sant’Antonio Abate il 16 gennaio, la celebrazione del rito dionisiaco della fertilità, con maschere. Perché il 16? Perché “la festività di sant’Antonio Abate ha sincretizzato in forma cristiana quasi tutti i rituali legati al culto dionisiaco”.

Gustave Flaubert,  Le tentazioni di sant’Antonio, Carbonio, pp. 176 € 16,50

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