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A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (42)
Giuseppe Leuzzi
Accompagnavano Caroline Flaubert fresca sposa in
viaggio di nozze il fratello Gustave, il padre Cléophas e la madre. Era maggio
del 1849, tra Rouen, capoluogo della
Normandia, regione della Francia settentrionale, e Genova, e poi a
Genova per un paio di settimane. È fatto vero, non è un racconto di Brancati.
“Ricordo di aver guardato i
fondi europei per la ricerca scientifica destinati alle Regioni Obiettivo 1 del
Mezzogiorno e di aver trovato che spesso non hanno generato ricerca avanzata o,
addirittura, si sono rivelati dannosi”, Giorgio Parisi sul “Corriere della
sera-Login”.
Non solo i fondi per la
ricerca, tutti i fondi Obiettivo 1. Se si considera come con quei fondi l’Andalusia
in Spagna o la Grecia o la Polonia sono diventati prosperi, è chiaro che il Sud
è vittima di se stesso.
“Dai Greci i meridionali hanno
preso il carattere di mitomani”, C. Alvaro, “Quasi un vita”,1938.
Il toscano? Un cattivo meridionale.
Non a suo agio con l’intellettualità letteraria anteguerra, toscana, C. Alvaro
le imputa i peggiori vizi del notabilato meridionale – “Quasi una vita”, 1939:
“La retorica della tradizione, della religione, dell’arte, del disinteresse,
serve freddamente ai toscani. È il vezzo dei loro intellettuali. È venuto fuori
un tipo che riassume in sé il formalismo, il fiscalismo, il borbonismo, la
prepotenza, il servilismo, la cavillosità del cattivo meridionale”. Si può
usare il Meridione come una clava, per offendere e non per essere offesi, come capita.
Le proiezioni demografiche,
per natura quasi certe, danno il Meridione fra sessant’anni, al 2080, ridotto
dai venti milioni attuali di abitanti a 12 milioni. La “questione meridionale”
si estinguerà con i morti.
Si riduce anche il resto
d’Italia, ma di poco: il Centro da 12 a 9 milioni, il Nord da 27,5 a 24,5. Si direbbe
che il Sud non ha più voglia di nascere.
Se Napoli fosse rimasta industriale
I tremila lavoratori della
Whirpool che non si sono arresi agli ammortizzatori sociali, una comodità, da
integrare semmai con un po’ di lavoro nero, e hanno cercato una nuova
occupazione, e l’hanno trovata, riporta alla memoria quanto l’economista compianto
Mariano D’Antonio, napoletano autoesiliato, amareggiato, a Roma, diceva del
post-Bagnoli, della “Rinascita napoletana” di Bassolino, dell’ubriacatura della
Napoli del “terzo settore” – in pratica del turismo culturale e dei bagni di
mare: “Pensano di fare sviluppo con le pizze, tutti camerieri, la mancia è
esentasse”.
La chiusura di Bagnoli era
diventata un’ossessione. “La siderurgia a Posillipo” era anatema alla fine
anche degli stessi dirigenti dell’Italsider, che non vedevano l’ora di di avere
la chiusura imposta, dal municipio, dalla regione, dal governo. E la chiusura fu
una celebrazione – “ne faremo una città del sapere”, “una città della scienza”,
questo trent’anni fa. Gli ex Whirpool ricordano dopo trent’anni di città della
scienza a venire, mentre il “terzo settore” combatte con furti, scippi,
pistolettate, che Napoli era una città industriale al tempo dell’unificazione dell’Italia,
la più industriale, tra cantieri a mare e a terra. Ed era il porto dell’Europa
verso Oriente. E che se l’unità d’Italia fosse stata fatta con criteri diversi,
come uba federazione, o anche con uno stato unitario non “piemontese”, la storia
sarebbe stata molto diversa. Il Meridione è diventato “questione” subito, nel
1873, subito dopo Porta Pia.
Perché la Sicilia non è la California
Si
leggono i giornali locali in Sicilia con un’impressione netta: il siciliano è
sicuro di sé (self-assured). Anche
quando conversa, o chiede, perfino se prega. Non manca di iniziativa, al
contrario presume troppo. E la memoria torna di quando, quarant’anni fa, si
celebravano a Palermo convegni sulla Sicilia come la California d’Italia (la
California allora molto celebrata, come ottava potenza economica mondiale,
subito fuori del G 7). Clima e natura. Storia e cultura. E inventiva: farmaceutica
a Catania, e i microprocessori di Pistorio, bioingegneria, sempre a Catania, moda
e turismo, di classe, anche di gran classe. E non è stata a lungo nulla, per il
decennio delle stragi. Poi in ripresa, ma con
juicio. E crede sempre alla mafia.
La
sicurezza di sé, allora? C’è ma è un handicap. Troppe imprese brillanti si sono
conosciute che non sono sopravvissute al fondatore - e anzi si sono fatte
variamente imbrigliare (ma soprattutto sotto la nube mafia): Morgante (Italkali,
un impero del sale che arrivava in America, alle strade americane – con miniere
di salgemma attorno ad Agrigento che erano un tesoro, anche artistico, prima
che gliele chiudessero), i cavalieri di Catania, Rendo, Costanzo, Graci, Finocchiaro,
quelli dei fosfati, i primi ad arrendersi (senza bisogno della mafia, bastò
Leoluca Orlando), Arturo Cassina (i figli Luciano e Duilio hanno tenato di
continuare, ma sono stati stroncati), da ultimo Montante. Il terreno è buono e
fertile ma poco ci cresce – fiori sul letamaio.
Il vino in Calabria
Il vino è il suo vitigno.
Metodi e tecniche possono modificarne il sapore, qualche volta anche migliorarlo,
ma la sostanza del vino è il vitigno che gli da consistenza, colore, sapore,
profumo e ogni altra dote.
Il vino piace anche perché è
vario, se è vario. C’è chi beve sempre un solo vino, ma ne apprezza le
variazioni. È d’uso, anche da prima del “mercato”, quindi moltiplicare l’offerta,
di “vini buoni”, che rispondano cioè a un vitigno locale di cui sono note le
caratteristiche, che prospera per le speciali condizioni dei terreni, le acque,
l’umidità e l’aria locali, moltiplica la varietà alla degustazione, e moltiplica
il mercato, la domanda, la produzione.
La Calabria risulta avere un
record di vitigni autoctoni, 180 vitigni antichi sarebbero registrati. E aveva
fama di terra di vini ottimi. I viaggiatori dell’Ottocento vi trovavano molti
motivi di disagio, comunicazioni,
traspori, alloggi. Ma tutti ne apprezzavano i vini. Il medico svizzero Rilliet,
che lavorava a Napoli e accompagnò l’ultimo re Borbone in una parata militare
attraverso tutta la Calabria, che
descrive grande produttrice di seta, olio d’oliva e “vini famosi”, non lascia una sosta senza elogiare il vino
locale, malgrado le pulci, i gallinacci tra i piedi, anche i porci, e gli altri
noti inconvenienti.
Ottant’anni dopo un altro
viaggiatore, il fiorentino Orioli, fa dei vini locali che via via assaggia una
collezione fantastica, il vino alla viola, alla mandorla, al pesco selvatico –
con la consulenza del suo grande amico Norman Douglas, che già ne aveva fatto
assaggio entusiasta prima della Grande Guerra.
Altrove basterebbe per uan
promozione in grande stile, per di più gratuita. In Calabria no, non interessa.
Coltiva pochi vitigni, i rossi gaglioppo e magliocco, i bianchi greco,
ansonica, mantonico, pecorella, e li lavora poco. Si può dire che non produce quasi vino. Giusto 90 mila ettolitri l’anno, poco più della Basilicata -
ultima regione in Italia per la produzione di vino, se si eccettua la valle
d’Aosta. Il Molise, con una superficie di un quarto, poco meno, e altrettanto
montuoso, ne produce due volte e mezzo. Un sola cantina calabrese, o due, è fra
e 103 italiane nella graduatoria per qualità di “Wine
Spectator”, bibbia del settore. Fra i cento produttori vitivinicoli nazionali classificati
per fatturato da “L’Economia”, da 624 a 10 milioni di fatturato, non c’è un
produttore calabrese.
Ora
che il vitigno “diverso” va a premio sul gusto “internazionale”, la Calabria il
vino lo trascura – renderà bene, ma è faticoso. Spariti gli ottimi
bianchi della costa tra Scilla e Palmo, non un tralcio sopravvive.
Per l’eccezionale zibibbo Bagnara festeggiava con famose Sagre dell’Uva negli
anni 1950. Gustav René Hocke censiva con grandi lodi anche un ottimo Greco di
Gerace, un vino bianco derivato dall’uva greca, molto diffusa tra Metaponto e
Gerace. Anche il nome sembrava ben trovato, un brand nato, e
invece: mentre sul vitigno greco altre aree d’Italia hanno costruito, seppure
con difficoltà, degli imperi, il Greco di Gerace si è perso. Il Greco di
Lamezia, tentato una diecina d’anni fa, è scomparso dopo tre o quattro anni. Il
Critone, che al greco aggiungeva una modesta quantità di sauvignon, per un
esito molto gradevole, pure. Il Cirò bianco, che era al 100 per cento di uva
greca, da qualche anno si mescola al trebbiano, per farne un “vino da tavola”.
Manca più la capacità o l’ambizione?
“In viaggio”, la memoria di Orioli sul suo viaggio a piedi
attraverso la Calabria, ha i vini una costante nelle notazioni di varia natura.
Giuseppe “Pino” Orioli, sodale e compagno di Norman Douglas, il grande scrittore
di “Vecchia Calabria, caprese di adozione, che lo accompagna nella rivisitazione, nella primavera del 1933, è
entusiasta, dell’aria, i profumi, i ragazzi (e le ragazze), e dei vini: “Il
cibo non è certamente raffinato ma il vino è delizioso”, è notazione costante.
Si tratta di vini locali, e anzi personali, degli osti e degli anfitrioni dei
viaggiatori. Ma il colore e il sapore sono già regionali, “jonico,
“reggino”. Le notazioni ritornano encomiastiche quasi a ogni pagina. Non c’è
vino che beva che lo deluda – ed era la sola bevanda all’epoca rinfrescante, o
perlomeno coadiuvante nelle lunghe scarpinate (il viaggio si faceva a piedi). A
Doria, frazione di Cassano, gusta “il vero vino calabrese, quello con il gusto
di viola che rimane così piacevolmente sul palato”. A Pellaro, alla fine, gli “lascia
ancora in bocca quell’inconfondibile gusto di mandorle” – e questo è il gusto
tirrenico, come opposto a quello “jonico”. Un arsenale pubblicitario
formidabile, di cui in altre contrade, per esempio lo smagrito Friuli, si sarebbe
fatto una miniera.
A Crotone si rifornisce di “bottiglie scelte di vino Cirò e Melissa”,
dall’“inconfondibile sapore ionico”. E subito dopo, a Tiriolo, si delizia dei “vini locali”, più
delle donne, che allora si ammiravano per l’abbigliamento tradizionale: “Quelli calabresi non sono stati standardizzati, ringrazio Dio per questo” - anche Soldati
sarà reiteratamente di questa idea sui vini, che sono meglio locali, variati. non standardizzati. A Spezzano
Grande compra “bottiglie di vino eccellente”. A Gioiosa “il vino, questa volta,
ha il gusto ionico delle mandorle e non delle viole, e visto che stavamo lasciando
le coste ioniche per quelle tirreniche, lo bevemmo con estremo gusto”. Il vino di Pellaro, sotto Reggio Calabria, è
“una scoperta”. Ci ritorna più volte - “lascia ancora in bocca
quell’inconfondibile gusto di mandorle, che è una specialità di questi vini”. Anche
a Metaponto, finita la trasvolata della Calabria, trova “una piacevole
sorpresa”, il vino: “Vino calabrese d’alta classe, non come quel veleno nero
pugliese che di solito vendono nelle stazioni”. Allora come ora, i pugliesi
vendono il vino nelle stazioni, i calabresi no.
leuzzi@antiit.eu
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